La letture di oggi – L’Ospedale di Crema

Un’interessante intervista di Selvaggia Lucarelli, su “Il fatto quotidiano”, a un medico dell’Ospedale di Crema. La trovo un po’ inquietante ma da leggersi, soprattutto per noi di Tortona (scusate il riferimento locale), visto quello che sta accadendo all’ Ospedale di tale città, che sarà dedicato interamente ai malati di Covid-19.

Oggi Il Fatto apre con questa mia intervista a un medico dell’ospedale di Crema che racconta molte cose interessanti, dall’aggressività di questo virus nel pazienti giovani (loro hanno anestetista e infermiera in terapia intensiva) al come, secondo lui, la politica abbia deciso di creare una cintura di protezione intorno a Milano per trasformare alcune città come Crema in lazzaretti.
Leggetela, forse non è rassicurante, ma è preziosa.

“Ieri ho lavorato dalle 7 del mattino all’una e mezzo di notte. Oggi sono riuscito a vedere qualche ora la mia famiglia”.

Attilio Galmozzi, medico presso l’ospedale di Crema (ospedale che l’assessore regionale Gallera ha definito “centro specializzato per il Coronavirus), è piuttosto scettico riguardo le scelte della Regione Lombardia. “Non capisco come questo possa essere un ospedale specializzato quando abbiamo sette posti in terapia intensiva più un ottavo d’emergenza. Abbiamo sei macchine per la ventilazione non invasiva. Soprattutto, in questo ospedale non c’è un infettivologo, l’ultimo se ne è andato due anni fa”.

E allora come mai la Regione ha scelto l’ospedale di Crema?
Guardi io e i miei colleghi l’avevamo capito da un pezzo che sarebbe finita così, che eravamo i predestinati, soprattutto quando hanno chiuso l’accesso alle ambulanze a Cremona e Lodi e i pazienti con problemi respiratori arrivavano tutti qui”.

Una scelta precisa, dunque?
Noi saremo il grande lazzaretto. E infatti abbiamo già un anestesista di 51 anni ventilato in rianimazione e un’infermiera del pronto soccorso, una delle nostre colonne, anche lei giovane, ha soli 44 anni, intubata.

Quindi avete pazienti giovani.
Assolutamente sì. Stiamo vedendo quadri clinici che io avevo visto solo nei libri di testo, forse nelle foto dei sintomi da Sars. Per il paziente diabetico, cardiopatico, bronchitico cronico, magari molto anziano se arriva addosso un virus così è chiaro che è il massimo della sfiga. Ma ci sono giovani in ottima salute che si ritrovano con problemi respiratori serissimi non gestibili a domicilio. E qui tornala questione iniziale: se arriva un paziente complicato e io non ho un ventilatore che faccio?

Perché proprio Crema sarà il grande lazzaretto, come dice lei?
L’impressione è che stiano creando una cintura intorno a Milano per proteggere la città che è il cuore economico e politico della regione, si sono detti “tanto lì il territorio è già contaminato”. Ma non si illudano che il virus non arriverà ovunque. Le attività economiche, le scuole riapriranno e da Crema la gente tornerà a Milano, ci migliaia di pendolari. C’è un problema globale e stanno pensando di risolverlo con un isolamento locale in una città di 35 000 abitanti, con un ospedale che ha 380 posti letto e non riuscirà a reggere. Io abito tra Crema e Lodi, sentiamo un andirivieni di ambulanze che ormai mio figlio mi dice “Senti papà, un’altra!”.

Quanti sono i medici lì?
Col primario siamo 13. In questo momento abbiamo 98 persone al pronto soccorso. Al San Raffaele di Milano sa quante ce ne sono ora? 47.

Altri problemi?
Oggi dopo aver passato giorno a fare tamponi nell’area infetta, mi hanno messo all’unità di osservazione breve intensiva. Mi sono ritrovato con pazienti col coronavirus ma magari malati anche di Alzheimer non accompagnati da nessuno perché la moglie è a casa malata, senza figli, senza documenti… è una situazione difficile da gestire su più fronti.

Lei come sta?
Io ho avuto la febbre per due notti 3 o 4 settimane fa, ora sto bene e quindi non ho fatto il tampone, come da ordinanza.
Le mascherine e il materiale per proteggervi li avete?
Sì, abbiamo subito perfino dei furti, nel caos di venerdì sono spariti un paio di scatoloni di mascherine col filtro e chirurgiche. Abbiamo delle divise di ricambio, la lavanderia lavora 24 ore su 24, ormai metto anche le divise XS da donna, tanto sono magro.

Cosa sarebbe servito secondo lei per evitare questo caos negli ospedali?
Serviva una centrale operativa regionale che fin da subito agisse. Consideri che qui il primo paziente con problemi respiratori è arrivato il 17, in un momento ben ben lontano dal panico dei giorni dopo. Il tampone (positivo) l’ha fatto successivamente infatti.

Come va il morale del personale?
Sabato pomeriggio il nostro primario che è lì giorno e notte, fa i miracoli, a un certo punto nella tensione, mentre si decideva chi avrebbe fatto cosa, è scoppiato a piangere come un bambino. Gli abbiamo detto non crollare, “se crolli tu crolla il sistema”. Sente il peso della responsabilità, come non capirlo.

Avete tutti una grande responsabilità.
Siamo una grande squadra, formata soprattutto da donne. Tra di noi si stanno saldando anche rapporti che prima magari erano non facili. Speriamo solo di non ammalarci, sono in corso sette tamponi, e moltissimi tra il personale amministrativo.

Il caso più serio tra i pazienti?
Un uomo di 57 anni che è entrato qui brillantissimo. Uno sportivo, persona distinta, che hanno intubato ieri, c’è stata un’evoluzione rapida del virus. Sembra uno scherzo, ma in compenso un signore di 98 anni con una tac che fa paura, non richiede neppure l’ossigenoterapia, i suoi parametri vitali sono normali. Cammina con le sue ciabattine, vuole tornare a casa dalla moglie. E’ una malattia imprevedibile.

Previsioni?
Se riapriamo tutti i luoghi di aggregazione a breve sarà un disastro. Sono per il modello Wuhan, con degli adattamenti.

All’ospedale di Crema le polmoniti sospette quando sono iniziate?
La polmonite in queste zone gira già da dicembre /gennaio. Quest’anno c’è stato un picco di polmoniti nei giovani, a gennaio ho visto un giovane trasportatore di una società che gestisce il trasporto pubblico con una polmonite bilaterale, ovvio che col senno di poi penso che potesse essere Coronavirus. Chissà quanti ne abbiamo mandati a casa con una pacca sulla spalla dicendo: hai un’influenza mettiti a letto, bevi e riposati.

Quindi queste polmoniti da Coronavirus nei giovani sono molto aggressive.
Noi solitamente la polmonite così la vedevamo in pazienti selezionati, nel paziente molto anziano, in chi soffre di bronchite cronica, nel paziente oncologico che fa chemioterapia e ha un sistema immunitario compromesso. Ora addirittura distinguiamo la polmonite interstiziale con la radiografia standard, che di solito trova quel tipo di polmonite con molta fatica. La tac del torace è più accurata, ma già dalla radiografia vediamo dei quadri così chiari che potremmo anche non farla. Ci troviamo davanti a queste radiografie con addensamenti e il classico quadro di rinforzo interstiziale di fronte alle quali anche i radiologi di 50 anni sono perplessi.

Sul fatto che non sia una semplice influenza ha ragione il professor Burioni quindi?
Senta, sono dieci anni che sono in pronto soccorso e io di complicanze da influenza stagionale così non ne ho mai viste. Mi spiace, ma chi dice che questa è una normale influenza dice palle.

(dalla giornata di ieri, dunque 24 ore dopo aver realizzato questa intervista, ai medici degli ospedali destinati a gestire l’emergenza Coronavirus è stato chiesto di non rilasciare dichiarazioni)

La lettura di oggi – Il razzismo e i suoi confini

Un interessante punto di vista di Ernesto Galli della Loggia, dal Corriere della Sera del 10 gennaio scorso.

L’alternativa non è tra il razzismo e l’accoglienza. Quando si tratta di rapporti con l’«altro», con chi percepiamo come diverso perché estraneo alla collettività umana cui noi apparteniamo, l’alternativa non è tra il rifiuto aggressivo intessuto di uno sprezzante senso di superiorità da un lato, e dall’altro la disponibilità più aperta, amichevole e ospitale. C’è una terza posizione, che è poi quella istintivamente adottata dalla grande maggioranza degli esseri umani.

Ce la indica un grande antropologo, forse il più grande del Novecento, Claude Lévi-Strauss — è necessario aggiungere che difficilmente lo si sarebbe potuto definire un conservatore? — in un suo testo poco noto (De près et de loin, Odile Jacob, 1988) contenente parole di straordinaria attualità che meritano di essere conosciute e meditate. Specialmente in un momento come l’attuale in cui nella società italiana le tensioni di vario genere causate dall’immigrazione stanno accendendo intorno a questi temi un aspro dibattito pubblico nel quale si sprecano le accuse e le strumentalizzazioni politiche.

Per Lévi-Strauss il razzismo è «l’ostilità attiva» di una cultura verso un’altra, volta a «distruggerla o semplicemente ad opprimerla» sulla base di una presunta gerarchia qualitativa dei rispettivi patrimoni genetici. Questo è il razzismo: che, come è ovvio, si accompagna inevitabilmente alla negazione all’altro degli stessi diritti di cui godiamo noi.

Invece, aggiunge subito dopo Lévi-Strauss, «che delle culture, pur rispettandosi possano sentire maggiori o minori affinità le une per le altre, questa è una situazione di fatto che è sempre esistita. È un dato normale dei comportamenti umani». E fa un esempio che lo riguarda personalmente: se in metropolitana gli capita d’incontrare dei giapponesi, verso la cui cultura egli è attratto, gli viene naturale un moto di simpatia e d’interesse, e il fatto si produce, ammette senza problemi, sulla base della loro semplice apparenza fisica, del loro puro modo di comportarsi nonché della conoscenza della loro lingua. «Nella vita quotidiana, conclude, tutti ci comportiamo così per situare uno sconosciuto sulla carta geografica. (.…) Sarebbe davvero il culmine dell’ipocrisia pretendere di vietare questo genere di approssimazione»:(…) «denunciarla come razzista rischia solo di fare il gioco del nemico dal momento che molte persone ingenue si diranno: se questo è razzismo, ebbene io allora sono razzista».

Dunque non volere avere troppo a che fare con i nigeriani, dico per dire, a causa del loro modo di fare, o sentirsi infastiditi dall’odore del cibo cucinato dai bengalesi, o trovare sgradevole l’idea di avere dei vicini di casa rom, non ha niente a che fare con il razzismo. È un’altra cosa. Così come è un’altra cosa preoccuparsi del fatto che la presenza di una cultura diversa dalla propria raggiunga proporzioni tali da rendere la nostra minoritaria. Una tale preoccupazione diventa razzismo non già quando in base ad essa si chiedono all’autorità misure per evitare che si crei la condizione suddetta (chiedendo di porre dei limiti all’immigrazione, ad esempio), bensì quando s’invocano misure a qualunque titolo discriminatorie nei confronti di chi è già tra di noi. O, come accade più spesso, quando con atti o con parole ci si comporta verso chi non condivide la nostra cultura in un modo che ci guarderemmo bene da adoperare con coloro che invece la condividono.

Le culture sono una cosa complicata e da maneggiare con cura. Per una ragione evidente: perché contribuiscono in misura decisiva a costituire l’identità di ognuno di noi, a farci essere e a farci sentire ciò che siamo, spesso al di là della nostra stessa consapevolezza. Se si è nati in questa parte del mondo, ad esempio, può capitare di essere un ateo a diciotto carati, infatti, perfino un mangiapreti, ma nel momento in cui si vede la cattedrale di Notre-Dame andare a fuoco, avvertire comunque un sentimento misterioso di tristezza e di angoscia, di perdita di qualcosa che ci riguarda profondamente.

Proprio per questo la politica è sempre tentata di sfruttare, esasperandolo, il dato culturale-identitario, dal momento che essa vede in ciò la possibilità di fare appello alla nostra parte meno razionale, di sollecitare le nostre reazioni più immediate e magari sconsiderate. È questa la strada che in Italia troppo spesso imbocca una parte della destra quando esaspera gli animi e più o meno intenzionalmente favorisce comportamenti che mirano a negare o violare i diritti altrui, siano questi emigrati, rom, o chiunque altro. Al che però si risponde spesso dall’altra parte, dalla sinistra, in modo altrettanto esasperato e contrario, opponendo ai «bassi istinti» gli «alti principi», alla febbre identitaria un algido idealismo che affida tutta la sua capacità di convinzione alla forza del tabù che per ogni persona civilizzata rappresenta l’accusa di razzismo. Ma applicare sconsideratamente il termine razzismo , come non manca di sottolineare esplicitamente Lévi-Strauss, significa solo banalizzare il concetto, svuotarlo del suo contenuto. E così rischiare di condurre alla fine a un risultato opposto a quello desiderato.

 

La lettura di oggi – Gli immigrati in Italia: che cosa dicono i numeri

Un bell’articolo di Ferruccio De Bortoli sul Corriere di inizio anno. Sono convinto che questi articoli servano a poco… i rancorosi e fanatici del Capitone o non li leggono oppure li commentano con “le bugie dei sinistrati”, “la solita zecca”, “è un pidiota”, “buonista del caxxo”, ecc..  In ogni caso lo suggerisco… non si sa mai. Tentar non nuoce. (grazie a Saverio per la segnalazione).

Le immagini dei primi nati dell’anno sono commoventi. I neonati, in un Paese che invecchia, sono ancora più i benvenuti. Il primo nato a Torino è stato Hadega; a Brescia Youssef; in Calabria Harshita; in Liguria Daniel; in Friuli Venezia Giulia Amar; in Sicilia Mohammed; in Puglia Iuliana. Che cos’hanno in comune questi bimbi? Sono tutti figli di immigrati. L’Italia è il loro Paese. L’Unicef ha stimato per il giorno di Capodanno la nascita in Italia di oltre mille e duecento bimbi. Speriamo siano stati di più. Comunque uno ogni 39 cinesi. Questo articolo presumo non piacerà. Forse, alla fine, nemmeno al suo autore. Perché anche chi scrive vorrebbe non vivere la contraddizione italiana di temere l’immigrazione, specie se disordinata, e, nello stesso tempo, di averne razionalmente bisogno. E, dunque, rimuove il pensiero. Una sorta di tabù inconfessabile. Uno sdoppiamento consapevole della nostra personalità di cittadini. Aperti e disponibili verso lavoratori immigrati operosi, badanti e collaboratori domestici. Insostituibili, preziosi. Gli immigrati di cui conosciamo utilità e impegno sono i benvenuti. A loro concederemmo volentieri la cittadinanza, salvo opporci fermamente alla sola idea appena il discorso si sposta sul piano generale. Ma gli altri immigrati, indistinti, sconosciuti, che vediamo nelle strade e nelle piazze, non sono i benvenuti. Al di là dei buoni sentimenti e dello spirito solidale di cui è ricco per fortuna il Paese.

Scoprire di essere minoranza italiana nel vagone della metropolitana di una nostra città può suscitare un senso incontrollabile di estraneità. Normale. Lo scacciamo per buona educazione. La stragrande maggioranza degli imprenditori apprezza il lavoro degli immigrati che impiega. Sa che non potrebbe farne a meno. Ma nello stesso tempo non è raro vedere molti industriali o commercianti applaudire ai porti chiusi — che mai peraltro lo sono stati — e alla politica delle frontiere sigillate, alla Orbán. La porta serrata in faccia agli altri. Quelli che non si conoscono. Ma i propri bravi collaboratori sono lombardi, veneti, pugliesi, ormai da sempre.

Il ritardo costante e la mancata programmazione del decreto flussi (ultimo nell’aprile scorso) non facilitano il reperimento di manodopera. E giustamente chi ha un’azienda, e non riesce a coprire i profili lavorativi di cui ha bisogno, ne sollecita l’allargamento delle maglie. I nostri connazionali che si lamentano, a torto, del lavoro loro sottratto mai si adatterebbero a mansioni riservate ormai solo agli immigrati. Un apprezzato imprenditore marchigiano dell’agroalimentare Giovanni Fileni («Scegli il bio», recita lo spot) confessa che senza immigrati avrebbe già chiuso. Sono rari i suoi conterranei che accettano di lavorare in un pollaio, seppure biologico. L’amministratore delegato della Fincantieri, Giuseppe Bono, ha spiegato che nei prossimi due o tre anni avrà bisogno di almeno 6 mila lavoratori, operai, tecnici, saldatori, ma non sa dove trovarli. In Italia il numero delle (dei) badanti, è ormai superiore al milione. Quasi il doppio dei dipendenti del sistema sanitario nazionale. Se si fermassero tutti insieme tante famiglie sarebbero alla paralisi, nella disperazione.

L’Istat ha appena aggiornato i dati sulla popolazione italiana. O non li leggiamo oppure ci siamo già fatalmente rassegnati al declino. A cominciare da coloro che invocano «prima gli italiani», che sono sempre di meno. Al primo gennaio del 2019 eravamo residenti in 60 milioni 359 mila 546. In un anno 124 mila in meno. Ma il saldo naturale (vivi e morti) è ancora peggiore. Nel 2018 era negativo per 193 mila 386 unità. I nati vivi nel 2018 (439 mila 747) sono al minimo dall’Unità d’Italia. Il tasso di fecondità è 1,32 per donna. Dovrebbe essere superiore a 2 per garantire la stabilità della popolazione. «Ultimi gli italiani», senza volerlo. Questo è lo slogan vero.

La popolazione straniera residente era pari, alla fine del 2018, sempre secondo i dati Istat, a 5 milioni 255 mila 503 unità, l’8,7 per cento del totale con un incremento di 111 mila unità, senza tenere conto ovviamente degli irregolari. La Svizzera è al 25 per cento; la Germania all’11,7. Siamo all’undicesimo posto in Europa per presenza di immigrati. Nel 2018 i nuovi permessi di soggiorno rilasciati ai cittadini non comunitari sono stati 242 mila, il 7,9 per cento in meno rispetto a un anno prima. Il sollievo di meno sbarchi, meno arrivi per la prima volta dall’Africa — di cui si è parlato tanto in questi giorni — è compensato dalla constatazione, più amara e silenziosa, che l’Italia come terra di emigrazione non sia più così tanto attrattiva. Perché non cresce. E, infatti, aumentano dell’1,9 per cento i nostri connazionali che si trasferiscono all’estero in cerca di un lavoro. In realtà sono molti di più perché le statistiche registrano solo le cancellazioni all’anagrafe. Oltre il 65 per cento dei nuovi permessi a immigrati è andato a persone con meno di 30 anni. Mentre i nostri giovani — l’emergenza emigrazione di cui non ci occupiamo — soprattutto laureati e in particolare dal Sud se ne vanno in massa. Il saldo migratorio, da anni ormai, non compensa la negatività del saldo naturale. Fa peggio di noi, in Europa, solo la Romania che è un Paese a fortissima emigrazione. Insomma, non c’è una invasione, semmai una lenta inesorabile evacuazione.

Qualche riflessione in più, pacata e non strumentale, sul tema dell’immigrazione (la necessità di avere manodopera di qualità, programmando gli arrivi) e dell’emigrazione, soprattutto dei nostri giovani laureati, guardando al futuro del Paese, al suo benessere reale, sarebbe opportuna. Vivere di slogan, false percezioni e pregiudizi, è il modo migliore per invecchiare ciecamente, impoverendosi nel rancore, lasciando in eredità non solo debiti ma anche l’incapacità di capire l’evoluzione futura del Paese. Una società multietnica è inevitabile. Bisogna solo scegliere se governarla o semplicemente subirla.

 

La lettura di oggi – Jane Fonda sottobraccio a Greta Thunberg

Jane Fonda, 82 anni appena compiuti (in carcere), direi che ha le idee chiare. Vi propongo un suo articolo pubblicato sul New York Times e, in Italia, da La Repubblica (traduzione di Anna Bissanti).

Che io creda nel potere della protesta non dovrebbe sorprendere nessuno. È per questo che mi sono trasferita a Washington per dare il via ai Fire Drill Fridays, i venerdì di protesta, insieme a milioni di giovani che dall’autunno scorso hanno iniziato a manifestare in tutto il mondo. Tutti noi dobbiamo fare i conti con una dura realtà: il Pianeta si sta avvicinando a un punto di non ritorno, oltre il quale la distruzione degli ecosistemi sarà fuori controllo. Gli scienziati l’hanno detto chiaramente: ci restano meno di undici anni per dimezzare le emissioni, e altri venti per portarle allo zero e stabilizzare così l’aumento delle temperature entro la fine del secolo, onorando quanto previsto dagli Accordi di Parigi. L’estate scorsa – mentre gli incendi portavano devastazione in California e mentre i giovani come Greta Thunberg rammentavano a noi tutti con grande forza e determinazione che siamo l’ultima generazione in grado di impedire una catastrofe inammissibile – ho deciso che per me era arrivato il momento di fare di più. Sono molte le cose che possiamo fare. Possiamo unirci alle proteste, impegnarci nella disobbedienza civile e rischiare l’arresto. Ma dobbiamo anche vedere questo periodo politico decisivo e unico per quello che è. Benché gli scienziati siano concordi nel ritenere che viviamo un’emergenza climatica che esige un radicale cambiamento economico e sociale, il governo degli Stati Uniti non fa niente. Sia chiara una cosa: non è l’opinione pubblica americana a non voler porre fine alle guerre per il petrolio. Non è l’opinione pubblica a non volere un clima stabile, la tutela degli oceani, la salvaguardia di acqua e aria.

No. Diciamolo esplicitamente: il settore dei combustibili fossili da decenni sta dirottando il nostro sistema politico. Il Center for Responsive Politics ha documentato che nel 2018 e nel 2019 il solo settore petrolifero e del gas ha speso circa 218 milioni di dollari per esercitare pressioni lobbistiche. Oltre a ciò, gli interessi di questi settori hanno fatto sì che ai candidati al Senato e alla Camera e ai comitati di partito impegnati nel ciclo elettorale del 2020 arrivassero finanziamenti per circa 27 milioni di dollari. In pratica, gli interessi dei combustibili fossili stanno sovvertendo la nostra democrazia. Solo l’anno scorso, gli Stati Uniti hanno patito incendi, alluvioni e il mese più caldo di cui si abbia notizia, fenomeni provocati, almeno in parte, dal cambiamento del clima.

Quale è stata la reazione del presidente Trump? Ritirare gli Stati Uniti dagli Accordi di Parigi e abrogare 85 provvedimenti a tutela dell’ambiente. Di questo, però, non si dovrebbe stupire nessuno: dopo tutto, una volta non ha definito il cambiamento del clima “una bufala”? Anche il capo della maggioranza al Senato, Mitch McConnell, sta ostacolando gli sforzi per affrontare e risolvere la crisi del cambiamento climatico. Siamo arrivati a un punto di questa battaglia in cui l’unico modo per andare avanti è mobilitarsi ed eleggere politici che non agiscano in maniera difforme rispetto al loro mandato. Dobbiamo sconfiggere lo strapotere dell’industria petrolifera ed eleggere paladini dell’ambiente.

Vincere le elezioni: solo così riusciremo a dar vita a un’economia più giusta ed equa. Così potremo garantire alle prossime generazioni un Pianeta abitabile. Così potremo tutelare le terre e le specie che le abitano. La buona notizia è che sempre più elettori comprendono quanto sia indifferibile la sfida. Due terzi degli americani dicono che il governo sta facendo troppo poco per limitare le conseguenze del cambiamento del clima, tra cui un 90% di democratici e un 39% di repubblicani, secondo un sondaggio del Pew Research Center. Non dobbiamo votare candidati che accettano soldi dal settore dei combustibili fossili.

Greenpeace sta redigendo una graduatoria dei candidati sulla base del loro sostegno al Green New Deal e all’interruzione delle operazioni di estrazione dei combustibili fossili. Per mezzo del programma Change for Climate 2020, la League of Conservation Voters sta monitorando le dichiarazioni dei candidati in tema di cambiamento del clima. Il comitato politico del gruppo l’LCV Victory Fund, sta incrementando le sue campagne negli Stati indecisi. Ho visto nei dettagli questa strategia e vi assicuro che potremo vincere la battaglia contro il cambiamento del clima. Un giorno saremo chiamati a rispondere alla domanda: “Che cosa ho fatto, quando c’era ancora tempo, per proteggere il Pianeta e le specie che all’epoca lo abitavano?”. Dentro di me c’è ancora molta voglia di lottare. Il 4 novembre 2020, all’indomani delle elezioni, non voglio guardarmi indietro e chiedermi cosa avrei potuto fare di più.

La lettura di oggi: Come si diventa l’albero di Natale più famoso del mondo

Ce lo ha spiegato Il Post con questo articolo

Il 4 dicembre, sono state accese le luci dell’albero di Natale del Rockefeller Center di New York: è quello più famoso della città, visitato ogni anno da 2,5 milioni di persone, e con ogni probabilità il più famoso al mondo. La cerimonia di inaugurazione, dove Gwen Stefani ha cantato “You make it feel like Christmas”, è stata seguita da milioni di persone in tv, e dal vivo dal sindaco di New York Bill de Blasio e mezzo milione di persone, tra cui, come ospite d’onore, la donna che ha donato l’albero, Carol Schultz. Lo aveva comprato nel 1958 e lo aveva portato a casa sua, nella città di Village of Florida a Orange County (nello stato di New York): era così piccolo che si poteva appoggiare su tavolino. Schultz lo piantò in giardino e lo decorò Natale dopo Natale: «gli dicevo sempre “un giorno finirai al Rockefeller Center e da vecchio sarai un albero bellissimo”. Quando lo vedrò illuminato dalle lucine, probabilmente mi metterò a piangere», aveva raccontato prima dell’accensione a NBC, cosa puntualmente accaduta.
L’albero in questione è, come da tradizione, un abete rosso alto 23 metri (l’altezza è generalmente compresa tra i 21 e i 30 metri); ha tra i 70 e i 75 anni, è stato tagliato il 7 novembre ed è arrivato nella Rockefeller Plaza il 9 novembre. Qui è stato decorato con oltre 50 mila lucine LED multicolore e con una nuova enorme stella Swarovski sulla punta. Nel giorno di Natale resterà illuminato per 24 ore di seguito; il 7 gennaio sarà l’ultimo giorno di luci e poi, una volta spento, sarà trasformato in legname e donato alla società di beneficenza Habitat for Humanity per costruire nuove case.
«È facile amare l’albero di Natale del Rockefeller Center», scrisse Manny Fernandez sul New York Times nel 2010, «ma è difficile guardare un tuo albero che lo diventa». Esiste un modulo per proporre il proprio abete come albero di Natale del Rockefeller Center – bisogna indicarne le dimensioni e fornire una foto con una persona o una casa vicino – ma la maggior parte dei vincitori viene adocchiata e scelta dai giardinieri del Rockefeller e in particolare dal suo direttore Erik Pauze, che nel 2010 prese il posto di David Murbach che se n’era occupato nei 26 anni precedenti. Anche l’abete rosso di quest’anno è stato individuato da Pauze durante una gita esplorativa, anche se Schultz lo aveva già proposto attraverso il modulo online nel 2010.
Gli alberi sono generalmente regalati, anche se in alcuni casi c’è stato un piccolo pagamento (nel 1996, scrive il New York Times, l’abete venne ceduto per 2.000 dollari, circa 1.800 euro). Non tutti, come Schultz, sono desiderosi di regalare il proprio albero e molte famiglie hanno rifiutato due o tre volte prima di convincersi: capitava che avessero altre cose da sbrigare o semplicemente per il legame affettivo con la pianta. L’albero di Natale del 1995 fu ottenuto dopo dieci anni di richieste alle suore di un convento del New Jersey: alla fine cedettero e lo benedirono con l’acqua santa prima di lasciarlo abbattere.
Per tutto l’anno Pauze e i suoi giardinieri percorrono gli stati con il maggior numero di abeti rossi – il Connecticut, il New Jersey e lo stato di New York – in auto o in elicottero (fu individuato così quello per il Natale 1997) in cerca dell’abete perfetto nei giardini e nei vivai: oltre a rispettare le misure, deve essere abbastanza robusto per reggere le decorazioni e deve riprodurre l’aspetto da cartolina dell’albero di Natale, con rami diritti e simmetrici. Una volta individuati uno o più candidati, i proprietari vengono corteggiati con cesti di delizie lasciati davanti alla porta, con la lusinga di portare gioia alla nazione grazie al loro albero perfetto e con la promessa di piantarne uno nuovo, o perlomeno di sistemare il giardino una volta tagliato il prescelto.
Ottenuta l’autorizzazione, a fine ottobre o inizio novembre l’abete viene tagliato e poggiato con una gru su un rimorchio e portato a New York avvolto in grandi fiocchi rossi che anticipano lo spirito della festa. Arrivato nella Rockefeller Plaza, viene eretto con quattro tiranti in acciaio e poi decorato con le lucine, mentre la stella arriva per ultima; quella di quest’anno è alta quasi tre metri e ha 70 punte triangolari per un totale di 3 milioni di cristalli Swarovski.
La tradizione dell’albero di Natale nella Rockefeller Plaza risale al 1931 quando, durante la Grande Depressione, alcuni operai impiegati nella costruzione del Rockefeller Center misero insieme il loro primo stipendio per decorare con ghirlande di carta un abete balsamico alto sei metri. Divenne un rito ufficiale nel 1933, quando venne organizzato da un pubblicitario del centro che si servì di un albero più grande e illuminato. Nel 1936 gli alberi diventarono due per inaugurare della pista da pattinaggio di fronte, e nel 1951 la cerimonia di accensione delle luci venne trasmessa per la prima volta in tv, diventando un evento di portata nazionale e trasformando l’albero di Natale del Rockefeller Center nell’albero di Natale degli Stati Uniti.

La lettura di oggi : “Il nostro problema non è il Cazzaro verde, ma chi lo vota”

Non sempre apprezzo Andrea Scanzi , ma questo articolo mi pare davvero centrato. Un po’ ci si collega al filmato che ho postato ieri…

Da Il fatto quotidiano

Spiace dover parlare ancora una volta di niente, e cioè di Matteo Salvini, ma la scorsa settimana sono successe almeno tre cose che lo riguardano. E che raccontano molto: non tanto su di lui, quanto su di “noi”.

1. Il cazzaro verde, dopo aver lanciato strali su Conte parlando addirittura di “alto tradimento”, lunedì viene zimbellato come sempre in Parlamento dal presidente del Consiglio. Poveraccio. Poco dopo lo intercetta un giornalista, che gli pone domande tecniche su cosa sia esattamente il Mes (per esempio “Cosa sono le Cacs?”). Salvini reagisce come quando la Boschi si trovava costretta a parlare di Costituzione, che pure pretendeva con Verdini di stravolgere. La sua performance è straziante (“Le clausole che sono in cauda venenum… eeeehhh… smack!”), denotando con ciò un’ignoranza oltremodo crassa. Non appena Salvini deve argomentare e riempire di contenuto minimo le sue sparate, si rivela più ignorante di una capra vilipesa. Daje Matte’.

2. Ospite di Bruno Vespa, Jabba The Polenta ci rivela che ha capito che Conte mente (sempre sul Mes) grazie a un messaggio non di Calderoli o Borghezio, ma dalla Madonna di Medjugorje. Mica niente: forse gli ha mandato un whatsapp, vai a sapere. Ascoltiamo il futuro presidente del Consiglio: “Ieri c’è stato un messaggio della Madonna di Medjugorje che invitava a giudicare le persone dallo sguardo. E lo sguardo di Conte è lo sguardo di una persona che ha paura, che non ha la coscienza pulita e che scappa”. Capito? Gliel’ha detto la Madonna di Medjugorje in persona. E pensare che, in quelle stesse ore, Salvini – sempre pieno di ore libere – se la prendeva col Vernacoliere perché reo di fare satira (su di lui) scomodando la Madonna. Cioè: lui attacca altri perché parlano a vanvera della Madonna. Povero Basaglia: quanto impegno sprecato invano.

3. Salvini, che a giudicare dalle fattezze non deve essere uno che si fa troppi sofismi davanti alle calorie allo stato brado, si scaglia (per poi tentare pateticamente il giorno dopo di fare marcia indietro su ordine di chi gli cura i social) contro la Nutella: “Non la mangio perché compra nocciole in Turchia”. Ora: detto che in realtà Salvini mangerebbe anche i cofani della Duna se fossero commestibili, e ricordato che se fosse sovranista sul serio non dovrebbe usare né smartphone (per nulla italiani) né bere mojito (in nulla italiani), tale sclerata va contro alcune realtà appena inconfutabili, che ricorda tra le altre Selvaggia Lucarelli: “Ferrero ha 6000 dipendenti in Italia a cui quest’anno riconosce un premio di 2.000 euro, ha il 40% di dipendenti donne, stage per i figli dei dipendenti all’estero, un asilo nido e un’attenzione non proprio comune al welfare aziendale. È il più grande acquirente di nocciole italiane, ma compra anche nocciole all’estero perché la produzione italiana non può soddisfare il fabbisogno per la produzione di Nutella destinata al mercato mondiale. Quindi (Salvini, ndr) sei, nell’ordine: fesso, disinformato e pure anti-italiano”.

Sono solo tre esempi tra i mille possibili, che però molto dicono sul personaggio. Il quale, se anche solo osasse proliferare in qualsiasi altro paese col suo mix truzzo di chiacchiere e distintivo, non lo voterebbe neanche un daino morto. Da noi, stando ai sondaggi e non solo, è invece il politico più amato dagli italiani. Ecco: se un Paese civile e democratico si affida mani e piedi a uno così, dopo aver creduto (noi no, ma la maggioranza dei votanti sì) a gente come Andreotti, Craxi, Berlusconi e Renzi, il problema non è tanto l’ennesimo cazzaro. Quanto chi lo vota. Buona catastrofe.

La lettura di oggi – Genova 2019, Autobus di linea

Una lettura che ho trovato grazie alla mia amica Elisabetta Radice che ha segnalato questo scritto su Facebook. E’ tratto da sosdonne.com.  Quanta tristezza però.

Succede che sali su un autobus con la tua classe per un’uscita didattica, succede che il viaggio è abbastanza lungo, succede che cerchi di sistemare i bambini in modo di averli tutti sotto controllo. Loro sono diciannove, noi insegnanti in tre. Succede che uno di loro finisca vicino ad una signora, lui non è bianco, non è italiano, ed è disabile, parla pochissimo, ma ha gli occhi buoni e intelligenti. Guarda fuori dal finestrino, è felice di essere con la sua classe, noi che lo conosciamo lo sappiamo. La mamma ci racconta che la domenica si sveglia spesso alle cinque e dice: “Io scuola, io scuola” e lei prova a spiegargli che non c’è scuola la domenica e non ci sono i suoi compagni, ma lui si dispera, si veste, vuole uscire.

La signora vicino a lui contorce la bocca e inizia a lamentarsi. “Poi non pagano nemmeno il biglietto!” esclama. Io e le mie colleghe la guardiamo incredule, non vogliamo credere che stia succedendo, lei continua, borbotta, è davvero infastidita. Così, per farla tacere, una di noi le risponde che il biglietto i bambini ce l’hanno e l’hanno pagato tutti.

La signora, se così si può chiamare, a un certo punto guarda il nostro piccolo con disprezzo, e ci chiede: “Me lo potete togliere?”. Non è infastidita dalla sua disabilità, perchè, a volte, succede anche questo, ma dal colore della sua pelle.

La mia collega le risponde pronta: “Lui non si alza, se vuole si sposti lei”.

I bambini ci guardano, è difficile essere insegnanti in quel momento, devi proteggerli, non esporli, ma come? Stando zitte, facendo finta di niente per non urtare l’animo?

Poi pensi allo spazio che il silenzio può lasciare al razzismo, a quello che è successo nel passato dentro a questo spazio, e tu sei un’educatrice, pensi a Rosa Park e pensi che era il 1955 e queste cose accadevano tanto tempo fa, non oggi a Genova, nella tua città, con i tuoi bambini.1x1adad

La signora si alza, si siede vicino ad un’altra nostra bambina e le sorride, lei va bene perché è bianca, è bionda, parla italiano. Forse pensa che le assomigli, ma non è così. Noi tre ci guardiamo, siamo provate, avevamo appena finito di vedere uno spettacolo meraviglioso e profondo intitolato “LUCE ” di Aline Nari che parlava delle domande importanti che sanno farsi i bambini e dell’unicità di ognuno di loro, vaglielo a spiegare che tutta quella bellezza è svanita in un attimo dentro alla discriminazione di quella signora.

Lui, in nostro bambino guarda fuori, legge i cartelli con quella voce metallica a noi tanto cara, ora è contornato dai suoi compagni, sono in tre in due sedili, si stringono come fossero una cosa sola.

A me sale la rabbia, è giusto stare zitte? così, ritorno dalla signora, faccio spostare la nostra bambina ‘bianca’ in un altro posto e le dico: “Lei merita di stare da sola, qui i diritti sono di tutti, il mondo non è suo!” e mi sposto al centro dell’autobus. Lei continua a lamentarsi, inveisce contro di me, le mie colleghe le rispondono a tono, finché non tace.

Prima di scendere mi passa davanti, mi picchietta il braccio tre volte con forza: “Non mi hai fatto paura” mi dice come se il problema fosse chi è più forte tra me e lei.

“Non ha capito niente, nessuno voleva farle paura, solo farla ragionare che il mondo è di tutti, soprattutto dei bambini e lei non ha più diritti degli altri”.

Ha alzato le spalle ed è scesa, sguardo dritto e sicuro. Legittimata anche dallo schifo di questi politicanti che non s’indignano abbastanza, questa è la verità.

Io e le mie colleghe ci siamo guardate, avevamo gli occhi lucidi. Siamo state in silenzio fino a scuola.

Ovviamente in classe abbiamo parlato con i nostri alunni, perché erano lì, ci hanno visto, uno di loro aveva le idee molto chiare su quello che era successo a un suo fratello, suo fratello, in questo caso, il fragile dei più fragili. “Quella signora era razzista” ha detto.

Ed è proprio così, perché è importante che, almeno loro, sappiano dare il nome alle cose e capiscano da che parte stare prima che sia troppo tardi.

Stasera una delle mie colleghe mi ha chiamato. “È stata una brutta giornata” ci siamo dette. Un mondo in cui degli adulti se la prendono con dei bambini è un mondo che fa paura.

Dobbiamo parlarne. Ancora e ancora, non lasciare spazio alle discriminazioni, non lasciare terreno fertile alle ingiustizie, è stato un attimo che i bambini ebrei non sono più andati a scuola e sono saliti su un treno dritti verso l’inferno.

Un attimo di silenzi e collusione. Questi atti gravi hanno trovato lo spazio di esistere non solo grazie alle politiche contro i migranti ma anche a quelle tiepide e non coraggiose di quei governi che si chiamano di “sinistra”.

Dobbiamo denunciare ogni atto razzista, dobbiamo proteggere i nostri piccoli e il loro futuro, ci siamo ribadite io e lei dentro a quella telefonata, forse per farci coraggio, forse per sentirci vicine e allontanare la rabbia.

La mia collega mi ha detto:”Dovevano fermare l’autobus!”.

“Già’, le ho risposto io. Una cosa è certa, i nostri bambini hanno ben chiaro che sono fratelli. Siamo noi che, spesso, non siamo alla loro altezza e non impariamo nulla dalla storia, dai nostri morti, dall’odio.

E non sappiamo insegnare la Pace, perché avere un nemico porta consensi, canalizza la rabbia, è utile per il potere.

Un nemico, appunto.

E vennero a prendere anche i bambini.

Genova 2019, atti di razzismo.

Penny

 

La lettura di oggi: E vanno pure in chiesa – Boia chi trolla

Oggi ben due letture, per chi si fosse perso questi articoli

Da L’Amaca di Michele Serra di qualche giorno fa.

Per una città europea nota e amata, bella e benestante, con alta qualità della vita, il fatto che un suo luogo pubblico sia deputato, da almeno vent’anni, a ospitare adunate naziste, non è un problema. Solo così si spiega la serafica assuefazione che le istituzioni veronesi (compreso allenatore e presidente del Verona Hellas) mostrano in merito all’oramai stabile insediamento nazista nella curva dello stadio Bentegodi di Verona. Si sa che l’estrema destra, a Verona come in parecchi altri posti, è componente del governo cittadino. Rimarrebbe, almeno sulla carta, la necessità della destra “moderata” di salvare la forma (che in provincia, una volta, era tutto o quasi), prendendo le distanze dagli energumeni razzisti che governano un pezzo molto visibile della città: la curva del suo stadio.

Ma no. Non è un’esigenza della Verona per bene, distinguersi dalla curva che ulula contro i neri e festeggia Hitler come il migliore dei bomber. Verona si attaccherà, anche per i prossimi vent’anni, a tutti i possibili distinguo, molto comodi per negare l’evidenza: non tutti sono nazisti, in quella curva; non tutte le domeniche fischiano i calciatori neri, a volte si prendono un turno di riposo; sono “solo ragazzi”, anche se i capi hanno superato la quarantina; il calcio è calcio e non c’entra con la politica.

Lo diranno. Tutto pur di non ammettere: abbiamo un problema di nazismo, a Verona, e ce l’abbiamo da molto tempo (qualche barbone bruciato, qualche rogo di “impuri”). Come sempre, non sono i pochi energumeni violenti a fare paura. È la maggioranza di borghesucci che fa finta di non vedere e di non sapere. E vanno pure in chiesa.

Sempre ironico invece Luca Bottura e il suo Boia chi trolla

Buongiorno e bentornati a #bravimabasta 33, la rubrica medica al passo coi tempi. Oggi parliamo di udito selettivo, un fenomeno che affligge principalmente ex ministri puritani che abbiano richiesto l’abolizione delle leggi contro l’apologia di fascismo.

Ci scrive il signor Fontana da Verona: “Caro Bottura, ieri ho negato sui social l’esistenza di cori razzisti contro Mario Balotelli durante Verona-Brescia ma tutti scrivono di averli sentiti. Cosa mi succede? Sono curabile?”.

Gentile signor Fontana, la sua è appunto la sindrome dell’udito selettivo, una patologia di origine psicosomatica che fu scoperta negli Anni Venti dal fratello di Gustav Jung: Neil Jung. La sindrome inibisce la funzione del martelletto posto nell’apparato uditivo, per timore che prima o poi si sviluppi anche una falcetta, e produce sintomi molto fastidiosi che in alcuni casi portano al sostegno di ultrà nazifascisti. La cura esiste ma normalmente richiede almeno un Ventennio. Nel frattempo le consiglio degli impacchi con asciugamani roventi: non servono a niente, ma almeno mi sarò preso una discreta soddisfazione.

La lettura di oggi: Il diario di Liliana Segre

La scorsa settimana abbiamo assistito a una brutta, pessima pagina di storia del nostro Senato, con l’astensione di Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia dalla votazione promossa da Liliana Segre contro l’odio. La scelta è stata curiosamente giustificata come “difesa dei valori di patria e famiglia”. La senatrice Segre ha risposto pubblicando sul Corriere della Sera una pagina del  diario sulla sua prigionia ad Auschwitz-Birkenau. Purtroppo sono certo che chi ha operato la scelta di astenersi non avrà letto questo stralcio o, avendolo letto, non avrà capito il riferimento.

1944, La stanza

La stanza era grande, lunga e stretta e vuota completamente. C’erano due porte e una finestra piccola, vicino alla finestra la stufa. La stufa era di ferro, era appena tiepida ma quel leggero tepore era annullato dalla corrente gelida che veniva dalla finestra. Stavo attaccata alla stufa e guardavo fuori la distesa di neve e le macchie indistinte delle prigioniere in fila, lontano verso i fili spinati. Avevo una consapevolezza nuova della mia nudità e del mio cranio rasato. La rasatura era stata crudele, la macchinetta passava duramente sulla povera testa quasi ormai pelata. I miei capelli neri lunghi, ricci, ribelli erano per terra e non avevo potuto tenere per me neanche il nastrino verde che li legava nella mia vita precedente. Non ero mai stata così sola e così infelice. Le ore passavano e ogni tanto entravano dei soldati, mi guardavano, ridevano, scambiavano una battuta di spregio. Avevo fame, sete e freddo. Nessuno mi diede nulla né da bere né da mangiare né da asciugarmi, dopo la doccia rimasi bagnata mentre aspettavo che i miei stracci venissero disinfestati.

* * *

La scoperta di un pidocchio sulla mia faccia e il mio gesto di ribrezzo disperato avevano attratto l’attenzione della kapò che mi aveva mandato subito alla disinfestazione e alla rasatura: io, la fortunata alla quale un mese prima all’arrivo a Birkenau non erano stati tagliati i capelli per un capriccio della sorvegliante, nell’invidia delle altre prigioniere. La mia faccia era terribile riflessa nel vetro. Mi facevo paura, volevo gridare, volevo piangere, volevo urlare la mia disperazione a quel cielo grigio: era inutile. Dopo ore entrò una ragazza. Avrà avuto forse due o tre anni più di me, anche lei nuda e disperata. Si avvicinò alla stufa e ci guardammo con pietà fraterna, già amiche, già sorelle, con occhi adulti. Tentammo in tutti i modi di parlare ma non ci capivamo assolutamente (forse era cecoslovacca o ucraina) e allora non so più a chi delle due venne in mente di tentare con il latino scolastico delle nostre prime frasi delle scuole medie, così lontane da lì. E fu fantastico poterci scambiare dolci brevissime frasi: Patria mea pulchra est («La mia patria è bella»), Familia mea dulcis est («La mia famiglia è dolce»), Cor meum et anima mea tristes sunt («Il mio cuore e la mia anima sono tristi»). Fu molto importante quel momento e anche se non ho mai saputo il nome di quella ragazza, con lei ho vissuto un’altissima affinità spirituale e la massima condivisione in una condizione umana bestiale. Grazie amica ignota, spero che tu sia tornata a raccontare di quel giorno di marzo 1944 nella «Sauna» di Birkenau.

Di Liliana Segre (testo raccolto da Alessia Rastelli)

 

La lettura di oggi: Parlateci di Bibbiano

Vi segnalo questo articolo, che mi pare illuminante, sul caso Bibbiano. Sui social si continuano a leggere commenti scritti da persone – tante purtroppo – che definire ignoranti è forse riduttivo: più che ignoranti. Purtroppo queste persone non leggeranno questo articolo o,se lo leggeranno, non cambieranno idea ugualmente. Credere ai complotti è più semplice. L’articolo è scritto da Massimo Ammaniti, neuropsichiatra infantile ed è tratto dall’Huffington Post.

Lo trovate a questo link