La lettura di oggi – Immuni serve ancora

Da “Il Post” un articolo importante

Negli ultimi giorni i proprietari dei modelli più recenti di iPhone hanno ricevuto una notifica per aggiornare i loro telefoni, portandoli alla versione 13.7 di iOS, il loro sistema operativo. Nelle informazioni per l’aggiornamento c’è scritto che la nuova versione “ti consente di attivare il sistema di notifiche di esposizione al COVID-19 senza la necessità di scaricare un’app”. Il messaggio ha portato a qualche confusione e ha indotto alcuni utenti a pensare che non sia più necessaria Immuni. Non è così: l’applicazione sviluppata per conto del governo per il tracciamento dei contatti contro la diffusione del coronavirus serve ancora.

Una decina di giorni fa Apple e Google avevano annunciato di avere aggiornato il loro sistema per il tracciamento dei contatti tramite smartphone, aggiungendo nuove funzionalità che avrebbero consentito ai governi di attivare questa funzione nei loro paesi senza la necessità di provvedere allo sviluppo e alla gestione di un’applicazione separata. La modifica era stata decisa soprattutto per risolvere alcuni problemi negli Stati Uniti, dove finora pochi stati hanno provveduto a un’app per il tracciamento delle esposizioni al coronavirus, senza coordinarsi con gli altri e rendendo quindi difficile il rilevamento di eventuali contatti tra uno stato e l’altro.

Prima di questa novità, Apple e Google avevano fornito i meccanismi di base nei loro sistemi operativi per smartphone (iOS e Android), sui quali poi ogni governo avrebbe potuto realizzare la propria applicazione, come è avvenuto in Italia nel caso dell’app Immuni. Sviluppare e mantenere in attività un’applicazione può però essere oneroso, sia in termini di costi sia di tempo, e per questo in seguito Apple e Google hanno semplificato, dando la possibilità ai governi interessati di investire poche risorse per realizzare i loro sistemi di tracciamento dei contatti tramite smartphone.

La novità sarà introdotta nelle prossime settimane su Android mentre è già disponibile su iOS tramite il suo ultimo aggiornamento, che ha portato a qualche confusione tra gli utenti. Il messaggio che avvisa delle nuove funzionalità specifica anche che “La disponibilità del sistema dipende dal supporto da parte dell’autorità sanitaria della zona in cui ti trovi”, una formulazione non molto chiara soprattutto per i meno esperti o per chi non sa in quali circostanze siano nate Immuni e le applicazioni simili negli altri paesi.

L’Italia è stato uno dei primi paesi a dotarsi di un’applicazione per il tracciamento dei contatti, quando ancora Apple e Google stavano lavorando a una prima versione del sistema per rilevare eventuali esposizioni al coronavirus tramite Bluetooth. Immuni è quindi nata in un momento in cui lo standard era da poco disponibile e ancora da perfezionare, con la costruzione di un sistema personalizzato e realizzato sulle particolari esigenze del caso italiano. L’app consente per esempio di segnalare la propria positività, in modo da allertare le persone con cui si era entrati in contatto, con l’aiuto di un operatore sanitario per verificare l’autenticità della segnalazione. Il sistema è integrato con le informazioni del ministero della Salute e della Protezione Civile, ed è pensato per funzionare in un modo più elaborato rispetto al sistema ora proposto da Apple e Google.

Volendo usare un’analogia, per intenderci: Immuni è un abito di alta sartoria, misurato e cucito sulle esigenze del governo italiano; la novità da poco offerta da Apple e Google è un abito preconfezionato da negozio di abbigliamento. Non significa che il secondo sia meno utile del primo o meno efficace, ma nel caso italiano è superfluo perché ci siamo già dotati di un vestito realizzato sulle nostre esigenze.

Per il tracciamento dei contatti tramite smartphone in Italia, Immuni continua a essere l’unica applicazione ufficiale e una risorsa importante per rilevare eventuali esposizioni al coronavirus: va quindi mantenuta sul proprio smartphone come ha fatto finora chi l’aveva scaricata in queste settimane. L’applicazione è gratuita, garantisce la tutela della privacy (secondo diversi esperti molto di più rispetto a quanto facciano le altre app che utilizzano i nostri dati) e può essere scaricata tramite App Store per i proprietari di iPhone e tramite Google Play Store per chi utilizza smartphone Android dalla versione 6.

Quindi: se avete un telefono adatto scaricate Immuni e attivatela

La lettura di oggi – La storia di un autobus e 23 contagi

Un interessante articolo de “Il Post” che fa riflettere, anche in vista della ripresa delle scuole e del conseguente aumento dell’utilizzo dei mezzi pubblici di terra.

Un nuovo studio pubblicato sulla rivista scientifica JAMA offre dettagli e valutazioni sul rischio di contagio da coronavirus sui mezzi di trasporto, e sul ruolo dei cosiddetti “super diffusori”. La ricerca ha ricostruito le vicende di un gruppo di persone che avevano effettuato un viaggio in autobus in Cina lo scorso gennaio, quando il virus stava iniziando a diffondersi da Wuhan nel resto del paese e poi del mondo. Stando alla ricostruzione dei ricercatori, in quella circostanza una sola persona causò il contagio di almeno 23 suoi compagni di viaggio in meno di due ore, mentre si trovavano su un autobus senza indossare mascherine. La vicenda era già stata raccontata in precedenza, ma il nuovo studio offre maggiori dettagli e valutazioni sulle modalità del contagio.

Il 19 gennaio scorso un gruppo di 67 buddisti aveva partecipato a un viaggio di andata e ritorno in autobus nella zona di Ningbo, a centinaia di chilometri di distanza da Wuhan, per raggiungere un tempio e partecipare a una cerimonia cui era seguito un pranzo. Nessuno di loro sapeva che a bordo ci fosse una persona – a quanto pare – inconsapevole di essere infetta: due giorni prima aveva partecipato a una cena con quattro persone di ritorno da un recente viaggio nella provincia dello Hubei, di cui Wuhan è il capoluogo. Avrebbe scoperto di essere malata solo una volta tornata a casa dopo la cerimonia al tempio buddista, anche se ci sono resoconti contrastanti su questa circostanza (un’altra ricerca pubblicata in Cina colloca la comparsa dei sintomi nelle ore prima del viaggio in autobus).

La cerimonia al tempio era stata organizzata all’aperto, quindi con minori rischi di contagio, ed era stata poi seguita da un breve pranzo al chiuso in un ambiente privo di aria condizionata. I fedeli erano stati trasportati con due autobus: uno con 67 persone (compresa la persona contagiosa) e uno con 60 persone, nessuna delle quali nei giorni seguenti avrebbe mostrato sintomi da COVID-19. Questa circostanza ha permesso ai ricercatori di mettere a confronto due scenari simili ma con esiti diversi, come in un esperimento di laboratorio.

Gli autori della ricerca hanno ricostruito una mappa dei posti sull’autobus e le posizioni dei vari occupanti, per capire come si fosse diffuso il contagio. La persona seduta alla sinistra di quella contagiosa è poi risultata positiva al coronavirus, mentre quella seduta alla sua destra non ha contratto il virus. Il contagio ha invece interessato diversi altri passeggeri, che si trovavano anche a sette file di distanza dal sedile della persona contagiosa.

I contagi sono per lo più avvenuti nei posti centrali e sul corridoio, rispetto a quelli nei pressi dei finestrini. È probabile che il sistema di aerazione dell’autobus, senza particolari filtri, abbia contribuito a far circolare le particelle virali. Studi simili, realizzati per esempio su una sala di un ristorante, avevano in passato evidenziato una circostanza simile legata alla diffusione del coronavirus tramite le correnti d’aria sviluppate da ventilatori e condizionatori.

Diversi ricercatori ritengono che le cose sull’autobus sarebbero potute andare diversamente se i passeggeri avessero indossato le mascherine. Stando alle ricerche più recenti e in fase di conferma, il loro impiego contribuisce a ridurre la circolazione del coronavirus, soprattutto negli ambienti chiusi, ed è utile sia per evitare che una persona infetta diffonda particelle virali nell’ambiente circostante sia per ridurre il rischio di inalazione da parte di chi le sta intorno.

Da tempo si discute sulle misure e le precauzioni da assumere sui mezzi di trasporto, soprattutto nel caso in cui si debbano affrontare viaggi di lunga durata. Mentre per il trasporto aereo non ci sono particolari limitazioni, perché si ritiene che i sistemi a bordo di filtraggio dell’aria siano sufficienti, in diversi paesi sono state introdotte regole per il distanziamento fisico a bordo di treni, autobus, tram e metropolitane. Su ogni mezzo di trasporto è comunque richiesto l’impiego della mascherina, proprio per ridurre i rischi.

Il nuovo studio si aggiunge al crescente numero di ricerche scientifiche sulla diffusione del coronavirus tramite l’aria, soprattutto negli ambienti chiusi e con scarsa ventilazione. Non sono però ancora completamente chiare le modalità del contagio, né perché in alcune circostanze un singolo individuo contagioso possa essere la causa di un numero molto alto di infezioni.

Ricercatori ed esperti raccomandano di ridurre il più possibile i rischi utilizzando le mascherine nei luoghi chiusi, e di ventilarli lasciando aperte le finestre nei periodi di permanenza al loro interno. Il costante ricambio d’aria permette di ottenere una considerevole diluizione delle particelle virali eventualmente emesse parlando, tossendo o semplicemente respirando. È una raccomandazione valida sia per i mezzi di trasporto (che lo rendano possibile) sia per gli ambienti di lavoro come gli uffici.

Anche se aggiunge elementi importanti sulle modalità di diffusione del contagio per via aerea sui mezzi di trasporto, è bene ricordare che lo studio descrive una combinazione di particolari circostanze: un lungo viaggio, un ambiente chiuso e affollato, la presenza di una persona nei primi stadi dell’infezione e quindi piuttosto contagiosa.

La lettura di oggi: Il dito medio

Dal corriere.it
Sulle bizzarie del popolo romagnolo, la pagina Facebook “Matti di Rimini” ha costruito il suo successo (quasi 55mila utenti), ma l’ultima che hanno trovato e pubblicato ha superato i confini della Romagna: si tratta dell’immagine di un manifesto funebre affisso per le vie di Spadarolo, nel Riminese, in cui la defunta, la signora Irma, di anni 84, si esibisce mentre fa il dito medio e sorride sorniona. Un scelta decisamente insolita, ma coerente, a quanto scrivono le cronache locali, con il carattere della signora. Ai giornali riminesi la figlia e le nipoti hanno spiegato di avere individuato proprio quella fotografia per rappresentare al meglio la personalità e il carattere della madre e nonna, donna originale e di grande apertura mentale.
Il post della pagina Facebook con l’immagine del manifesto di Spadarolo, da giorni raccoglie migliaia di condivisioni e di commenti e ha scatenato anche una piccola polemica. Quasi tutti i follower apprezzano e sottolineano lo stile «sincero ed espressivo per congedarsi da questo mondo», la «coerenza fino alla fine», promettono di portare fiori alla nonnina «nuovo idolo» o addirittura si lanciano in un «lo voglio anch’io!», ma non manca qualcuno che trova la scelta irrispettosa nei confronti della defunta e se la prende con le figlie. Che rispondono e spiegano: «Abbiamo scelto questa foto perché la mamma era così se ne fregava di tutto e tutti. Una gran donna nata nel periodo sbagliato per la sua apertura mentale».
Le esequie della signora Irma, scomparsa il 18 agosto, si sono tenute in forma laica il 20 agosto e le ceneri riposano al cimitero di San Maria in Cerreto.
E se qualcuno si sta chiedendo se la stessa foto del manifesto verrà utilizzata anche per la lapide funeraria, la risposta, fanno sapere i familiari, ovviamente, è si.

Proprio un’amabile vecchina, eh… Però è davvero una bella idea… quasi quasi…

 

La lettura di oggi: Coronavirus o COVID-19?

Ancora un articolo de Il Post che fa chiarezza su qualcosa che quasi tutti abbiamo spesso sbagliato a chiamare.

Nonostante da oltre sei mesi la pandemia sia l’argomento più trattato e discusso al mondo, in molti continuano a fare confusione tra coronavirus (SARS-CoV-2) e COVID-19, la malattia causata dal virus. I due termini vengono spesso impiegati come sinonimi sui giornali, da alcuni esperti e in alcune circostanze anche dalle istituzioni sanitarie e dai loro responsabili. Anche se non è un fenomeno limitato all’Italia, nel nostro paese l’abitudine di utilizzare indistintamente il nome del virus e della malattia si è diffusa notevolmente, comportando qualche fraintendimento.

COVID-19 (malattia)
COVID-19 è stato scelto sulla base delle linee guida stabilite nel 2015 dalla stessa OMS per definire le nuove malattie infettive, in modo che siano facilmente distinguibili tra loro e che non contengano riferimenti specifici ad aree geografiche o a popolazioni, in modo da mantenerle il più neutre possibili.

La sigla utilizza CO e VI per indicare il coronavirus, D per “malattia” (disease in inglese) e 19 per indicare l’anno della sua identificazione, il 2019 appunto.

SARS-CoV-2 (virus)
Per il nome del coronavirus è stato invece scelto SARS-CoV-2 dopo che si era verificata la presenza di diversi elementi in comune con il già noto SARS-CoV-1, il virus che causa la SARS, un’altra malattia respiratoria.

SARS sta per “severe acute respiratory syndrome” (“sindrome respiratoria acuta grave”), mentre CoV è l’abbreviazione di “coronavirus”, infine il 2 distingue il virus da quello che causa la SARS.

In diverse circostanze, l’OMS ha fatto riferimento al coronavirus chiamandolo “virus della COVID-19” per evitare che la presenza del termine SARS nel nome scientifico potesse indurre a qualche fraintendimento con l’altra malattia.

Virus e malattia sono due cose distinte
Un virus è un agente infettivo che può invadere un organismo causando un’infezione, che determina poi la comparsa di sintomi che presi nel loro insieme definiamo malattia.

Un test tramite tampone serve quindi a rilevare la presenza del coronavirus nell’organismo, non della malattia. Si è quindi positivi o negativi al coronavirus (SARS-CoV-2) e non alla malattia (COVID-19). Molte persone positive, inoltre, non sviluppano sintomi e non si accorgono nemmeno di essere malate, pur essendo positive al coronavirus.

Per una buona ecologia della comunicazione, vi lasciamo qualche esempio sui modi più indicati per riferirsi ai due termini.

Malattia (COVID-19)
• Mi è stata diagnosticata la COVID-19.
• Sono malato di COVID-19.
• La COVID-19 sta interessando una porzione significativa della popolazione.
• La COVID-19 può avere effetti gravi negli anziani.
• Il virus che causa la COVID-19 è un coronavirus.
• La COVID-19 è causata dal coronavirus SARS-CoV-2.
• Si è ammalato di COVID-19 e ora è ricoverato in ospedale.
• È in corso un’epidemia di COVID-19.

Coronavirus (SARS-CoV-2)
• Ho contratto il coronavirus.
• Il mio amico ha un’infezione da coronavirus.
• Sono risultato positivo al coronavirus.
• Il coronavirus si è diffuso causando un focolaio in paese.
• Il SARS-CoV-2 attacca soprattutto le cellule del sistema respiratorio.
• È in corso un’epidemia da SARS-CoV-2.

La lettura di oggi: Scuola tradizionale e scuola on-line

Dal “Corriere dell Sera” un diverso punto di vista rispetto al più diffuso orientamento di questo periodo

Certo è facile per me, dopo 46 anni di insegnamento da cattedre liceali e universitarie, consentire a pieno con il comune, imperioso, diffuso sentire proclamato nelle piazze, dalle televisioni, sui giornali, nei social, sintetizzato nella richiesta del tornare a settembre alla scuola «in presenza», esorcizzando quel maleficio rappresentato dalle lezioni online. Eppure, di fronte ad un simile onnicomprensivo schieramento che va dalle famiglie agli intellettuali, dai sindacati alla classe politica in questo caso senza troppe distinzioni di appartenenza, non può non scattare l’inevitabile meccanismo di reazione in risposta ad un’unanimità che pare escludere dubbi, domande, perplessità, chiarimenti. Intanto, c’è da chiedersi perché, se era così impellente il bisogno di scuola nelle tradizionali modalità, non si è cercato di riaccogliere subito gli scolari senza attendere il trascorrere di tanti mesi. Così come, poi, hanno fatto, con diverse modalità, alcuni degli altri Paesi europei. Tanto più che le regole che saranno date per settembre non mi sembra si discostino da quelle valide per tutte le altre attività: igiene, distanziamento, mascherine. Ma evidentemente, come sempre, alla scuola in Italia è riservato un trattamento residuale, che riguarda edifici, stipendi, organizzazione, e quindi, anche ora, le esigenze della ripresa. E allora bene riaprire subito fabbriche, uffici, laboratori, palestre, piscine, ecc., ma chissà perché non le scuole, secondo le stesse norme che da ultimo saranno poi applicate identiche a settembre. Peraltro, è evidente che l’unanimità di cui sopra raccoglie le assolutamente legittime esigenze dei genitori di assicurarsi una sistemazione per i figli durante le loro ore lavorative; così come l’aspirazione degli insegnanti non strutturati ad una definitiva sistemazione nei ruoli dello Stato, secondo una tradizione di ope legis sempre sostenuta dalle richieste sindacali e dagli interessi elettorali dei politici. Né si può ignorare, a livello psicologico, il legittimo rimpianto degli intellettuali per quanto fatto nella loro vita di insegnanti (che poi è anche il mio caso), a stretto contatto umano con gli studenti.
Tutto giusto, dunque. Tutto ugualmente legittimo, ma di quale scuola stiamo parlando nel momento in cui ne reclamiamo la riapertura? Quella scuola di esperienze sociali gratificanti, di formazione individuale e collettiva, di crescita culturale, di acquisizioni di conoscenze assorbite dal rapporto di riconosciuta autorevolezza verso l’insegnante, così insistentemente evocata in ognuno di questi appelli alla ripresa? O non piuttosto un ritorno, anche se certo condizionato dalle esigenze anti contagio, alla scuola che abbiamo attraversato negli ultimi decenni e tanto criticata da quegli stessi che ora la invocano. Dov’era in questa scuola la crescita individuale e sociale minata dal lassismo e dal pressappochismo? Dov’era il rapporto fecondo di esperienze e conoscenze con una classe di insegnanti privata di ogni autorevolezza e, assai spesso, addirittura minacciata di non attenersi all’unico compito ormai ad essa riconosciuto di custodire il parcheggio degli allievi e garantir loro il «pezzo di carta»? Dov’era l’auspicata trasmissione di un sapere formativo delle coscienze, in grado di unire l’apprendimento delle nozioni indispensabili con la maturazione della personalità ( per non parlare delle delinquenziali forme di bullismo, o addirittura dei collegamenti tra scuola e degrado di quartieri non solo periferici)?
È evidente a tutt’oggi che il ritorno alla scuola «di presenza» ha una dimensione, diciamo così, quantitativa ( i numeri, le misure…) senza alcun tentativo di interventi qualitativi, dominati dal rifiuto, che mi pare di sapore «ideologico», dell’online. E questo è davvero singolare in un tempo dove si guarda ad un futuro di mutamenti in tutti i settori definiti da un utilizzo sempre più marcato degli strumenti innovativi della tecnologia. Fino ad individuare forme di intelligenza artificiale in grado di intuire e ritrasmettere i nostri pensieri; o di sostituire artificialmente parti del nostro corpo; e pure di animare in modo assolutamente realistico personaggi del passato che ci parlano oggi; come anche di proporci modalità inedite di produzione del cibo; fino ad immetterci in un’infinita rete di connessioni che riescano a controllare movimenti e finanche pensieri di tutti noi, ponendoci di fronte a problemi di scelta individuale e collettiva i cui rischi non vanno certo pregiudizialmente negati. Un mondo, dunque, dove – come sempre- ci sarà del positivo e del negativo, dei vantaggi e degli svantaggi, dei guadagni e delle perdite; ma verso il quale stiamo correndo, proclamando ad ogni piè sospinto la necessità di misurarci con un simile futuro, di attrezzare proprio le giovani generazioni ad affrontarlo con consapevolezza culturale ed adeguate strumentazioni tecniche ( quanto sembrano lontane le tradizionali diatribe tra preparazione “umanistica” e capacità “scientifiche”!).

La lettura di oggi: Come potremo tornare al ristorante?

Un articolo del corriere.it, un po’ inquietante per la nostra vita sociale futura, ma senza dubbio con osservazioni che non possono essere ignorate in vista di una possibile riapertura.

Uno studio cinese che sarà pubblicato a luglio in Emerging Infectious Diseases, una rivista pubblicata dai Centers for Disease Control and Prevention (CDC) Usa, mostra in che modo il coronavirus avrebbe infettato alcuni clienti di un ristorante a partire da un solo caso asintomatico, a causa del flusso d’aria del locale.

Il locale

L’analisi, retrospettiva e con alcuni limiti, riguarda un ristorante di Guangzhou, in Cina, e un pranzo avvenuto a gennaio: un commensale infettato dal coronavirus (ma non ancora sintomatico) sembrerebbe aver diffuso la malattia ad altre 9 persone. C’erano altri 73 commensali quel giorno sullo stesso piano del ristorante e loro non si sono ammalati. Nemmeno gli otto camerieri in turno in quel momento. Tutte le persone che sono state contagiate erano allo stesso tavolo della persona infetta o in uno dei due tavoli vicini sulla linea del condizionatore in una stanza senza finestre.

Pranzo dopo viaggio a Wuhan

La storia del pranzo è questa: il 24 gennaio la famiglia denominata “A” andava a pranzo nella città di Guangzhou: era arrivata da Wuhan il giorno precedente, prima che i funzionari cinesi imponessero il blocco alla città focolaio. A pranzo tutti i cinque membri della famiglia A sembravano sani, ma più tardi, una donna di 63 anni ha avuto la febbre e la tosse ed è andata in ospedale dove si è rivelata positiva per il coronavirus. Entro due settimane (dal 24 gennaio al 5 febbraio), altri nove clienti del ristorante di Guangzhou che avevano pranzato sullo stesso piano quel giorno risultarono positivi. Quattro erano parenti della prima donna infetta, potrebbero anche essersi contagiati fuori dal ristorante, ma per gli altri cinque il ristorante sembra essere stato la fonte del virus.

Disposizione dei tavoli

Il tavolo della famiglia A era sul lato ovest della sala da pranzo di 145 mt quadrati, tra i tavoli dove stavano pranzando anche altre due famiglie “B” e “C” (come si vede nel disegno, ndr). La famiglia B e la famiglia A si sono incontrate per un periodo di 53 minuti e tre dei suoi membri (una coppia e la figlia) si sono ammalati. La famiglia C sedeva accanto alla famiglia A nell’altro tavolo lungo lo stesso lato della stanza e ha soggiornato con la famiglia A sovrapponendosi per 73 minuti: due dei suoi membri (una madre e sua figlia) si sono ammalati. I tavoli rotondi distavano 1 metro l’uno dall’altro. Sopra il tavolo della famiglia C c’era uno split di aria condizionata che soffiava in direzione sud, attraversando tutti e tre i tavoli; parte dell’aria condizionata probabilmente rimbalzava contro il muro tornando verso la famiglia C: gli aerosol tenderebbero a seguire il flusso d’aria .

Le catene di contagio

Poiché il coronavirus non si era ancora diffuso ampiamente fuori Wuhan, i funzionari di sanità pubblica cinese sono stati in grado di rintracciare tutti i contatti delle famiglie B e C e determinare che il ristorante era l’unico luogo in cui era probabile si fossero infettati. In base alla tempistica della malattia, sembrerebbe che tutti e 3 i membri della famiglia B siano stati contagiati al ristorante. Lo stesso vale per la famiglia C, anche se i ricercatori non possono escludere che si siano anche sviluppati contagi secondari (in famiglia) a partire da un solo infetto per ciascun nucleo famigliare. Le altre 73 persone presenti sono state messe in quarantena per 14 giorni e non hanno sviluppato sintomi. Lo studio sul campo ha dei limiti. I ricercatori, ad esempio, non hanno eseguito esperimenti per simulare la trasmissione aerea.

Il viaggio delle goccioline

6 campioni prelevati dal condizionatore d’aria (3 dall’uscita e 3 dall’ingresso dell’aria) sono risultati negativi. «Il fattore chiave per l’infezione è stata la direzione del flusso d’aria – hanno scritto comunque gli autori – : le goccioline respiratorie più grandi (> 5 μm), infatti, rimangono nell’aria solo per un breve periodo e viaggiano solo per brevi distanze, generalmente <1 m. Le distanze tra il paziente A1 e le persone agli altri tavoli, in particolare quelle al tavolo C, erano tutte> 1 m. Tuttavia, un forte flusso d’aria dal condizionatore d’aria potrebbe aver propagato le goccioline dal tavolo C al tavolo A, quindi al B e di nuovo al C ( come in figura ). Piccole gocce aerosolizzate (<5 μm) cariche di virus possono rimanere nell’aria e percorrere lunghe distanze, gli aerosol tenderebbero a seguire il flusso d’aria e le concentrazioni inferiori di aerosol a distanze maggiori potrebbero essere state insufficienti a causare infezione in altre parti del ristorante».

La riapertura dei ristoranti

«In ogni caso – scrive il New York Times commentando la ricerca – l’analisi serve per capire quali siano le sfide che i ristoranti dovranno affrontare quando tenteranno di riaprire. I sistemi di ventilazione possono creare schemi complessi di flusso d’aria e mantenere le particelle aerosol virali sospese più a lungo, quindi la distanza minima (2 metri) potrebbe non essere sufficiente per salvaguardare gli avventori». È anche vero che mangiare allo stesso tavolo è un tipo di attività particolarmente “a rischio”: tanto tempo passato vicini, goccioline che possono essere espulse nell’aria respirando e parlando (non solo attraverso tosse e starnuti) e poi, mancanza di mascherine addosso. «Per prevenire la diffusione di COVID-19 nei ristoranti, si consiglia di rafforzare la sorveglianza del monitoraggio della temperatura, aumentare la distanza tra i tavoli e migliorare la ventilazione», concludono gli studiosi cinesi.

Quando potremo – e vorremo – tornare a cenare al ristorante con gli amici????

La lettura di oggi – La Lombardia non è un mondo perfetto

Da “Milano Today” mi piace proporvi il racconto di Luca Viscardi, che è stato  contagiato dal Covid 19 ed è riuscito a sconfiggerlo. Mi ha colpito forse perché essendo lui un animatore radiofonico ed essendolo io stato qualche annetto fa … lo sento vicino.

Coronavirus, l’intervista a Luca Viscardi (Number One) | Il mio calvario con la malattia
„La provincia di Bergamo è una delle zone più colpite dalla pandemia, quella che in Lombardia ha pagato il tributo più alto in termine di vittime. Ed è nel suo capoluogo, dove vive e lavora, che Luca Viscardi, direttore di Radio Number One e una delle più conosciute voci radiofoniche italiane, ha contratto il Covid-19, la terribile malattia respiratoria che scaturisce dal coronavirus.

Finalmente a casa, dopo un lungo calvario durato cinque settimane, racconta la sua esperienza a MilanoToday.

La situazione all’inizio è stata piuttosto curiosa…

“Appena è esplosa l’emergenza, sia a casa sia in ufficio, io sono diventato subito uno di quelli che igienizzavano tutto. Ma non è bastato, perché il 2 marzo ho iniziato ad avere la febbre, il fiato corto e dolori al torace. Nel giro di un paio di giorni ho scoperto che il collega con cui condivido lo studio era risultato positivo. A questo punto, essendo molto spossato e con una serie di sintomi strani, ho iniziato a chiamare tutti i numeri dell’emergenza che ci erano stati comunicati per raccontare i miei sintomi e il fatto di essere stato a contatto con una persona positiva e già ricoverata. Tuttavia, per molti giorni mi sono sentito rispondere la stessa cosa: se sta peggio chiami domani”.

Nessuno le ha fatto fare un tampone?

“No e così, dopo una settimana e una notte in cui il respiro era peggiorato, ho chiamato l’ambulanza e sono stato portato all’Ospedale Papa Giovanni di Bergamo. La casualità di essere stato assegnato lì è forse stata la cosa migliore che potesse capitarmi, perché si tratta di una struttura incredibile, con professionisti in grado di fornire un’assistenza medica di altissimo livello. Era il 9 di marzo, il giorno in cui in Lombardia scoppiava la grande emergenza. L’impatto iniziale con il pronto soccorso dava l’idea di una condizione di guerra: lettini ovunque, decine di persone in attesa di un tampone e i sanitari che operavamo come fossero davvero all’interno di un campo di battaglia. Dopo due giorni al pronto soccorso e il tampone risultato positivo, ho iniziato le cure con un mix di farmaci, compresi quelli per l’hiv. All’inizio non hanno avuto effetto e anzi le mie condizioni sono peggiorate”.

Possiamo dire che lei è un soggetto sano senza altre patologie, giusto?

“Sì, ho 50 anni e non ho mai sofferto di nessuna malattia, non sono un agonista ma ho sempre fatto sport. Ciò nonostante mi sono ammalato seriamente e le prime due settimane in ospedale sono state di buio totale”.

Riusciva a comunicare con la sua famiglia?

“La prima settimana sì, la seconda ha avuto un blackout totale e non riuscivo nemmeno a mandare messaggi con il cellulare. Mia moglie è rimasta comunque in contatto coi medici che anche dal punto di vista della comunicazione quotidiana sono stati fantastici. Tra l’altro c’erano due addetti che giravano in reparto dando supporto a tutte le persone che non avevamo o non riuscivano a utilizzare un telefonino”.

Dal punto di vista umano e medico è stata quindi un’esperienza positiva.

“Assolutamente sì. Abnegazione, attenzione, dedizione che forse mai avrei immaginato. Ma intanto sono arrivato alla seconda settimana senza segni evidenti di miglioramento. Così sono stato messo sotto il casco dell’ossigeno per aiutare i polmoni a respirare e ho iniziato anche la terapia con i farmaci anti-artrite. La combinazione ha avuto un effetto miracoloso e mi sono riacceso. Il corpo ancora non rispondeva ma ho avuto la netta sensazione di essere di nuovo attivo almeno con la testa. Ho passato poi ancora altro tempo a letto senza riuscire a fare nulla, ma alla scadenza della terza settimana sono riuscito a camminare fino al bagno”.

C’è stato un momento in cui ha pensato di non farcela?

“Caratterialmente questa idea non mi ha mai sfiorato. Però a un certo punto mi sono reso conto di avere reazioni inesplorate, anche in senso negativo come l’ansia, di cui non ho mai sofferto, dovuta all’incertezza di non avere prospettive definite; per alcuni giorni ho avuto anche difficoltà nel gestire il tempo che non passava mai. I farmaci mi causavano delle scosse prima di prendere sonno e a un certo punto ho supplicato i medici che mi dessero qualcosa per dormire. Poi c’è stato anche l’effetto claustrofobico del casco dell’ossigeno: la prima notte ho strappato tutto, poi i medici mi hanno detto che era indispensabile per evitare la terapia intensiva e con alcune istruzione è andata meglio”.

Ha iniziato a vedere la luce?

“Sì, e il supporto di molti amici è stato importante. Anche di quelli che non frequentavo da tempo e che mi hanno fatto sentire in tutti i modi possibili il loro calore umano. Mi ha sorpreso perché ho sempre pensato che certi momenti di dolore e sofferenza fossero da vivere in silenzio. Invece l’affetto delle persone, anche della grande famiglia di Radio Number One di cui faccio parte, è indispensabile”.

Come ha gestito la malattia con suo figlio?

“All’inizio non capiva, anche perché abbiamo un rapporto molto stretto, fatto di gioco e di contatto. Scomparire andando in ospedale, dove non mi poteva né vedere né chiamare, all’inizio lo ha preoccupato, anche se mia moglie gli ha spiegato che tutto ciò era una misura di protezione anche nei suoi confronti. Poi, dopo le prime settimane, abbiamo ristabilito dei riti quotidiani con le videochiamate e le cose sono andate meglio. Tutto ciò mi permette però di aprire una parentesi su bambini sospesi anche dalla scuola in questi mesi di pandemia. Sarà un allarme da tenere acceso, vista la mancanza di uniformità con cui è stato gestito il problema. Occorre aprire un dibattito perché i bambini devono anche interagire tra loro e non solo studiare. Quanto tutto sarà finito non potremmo dimenticare la questione scuola e come è stata affrontata”.

Torniamo a lei, dopo cinque settimane finalmente a casa…

“Il giorno in cui abbiamo trattato il mio rilascio (ride, ndr) è stato un momento bellissimo, anche se volevano tenermi ancora un paio di giorni. Alla fine la sensazione è stata fantastica. Ora dal giorno di Pasquetta sono isolato a casa, uso una mascherina con mia moglie e mio figlio”.

Ma è stato fatto un tampone a sua moglie?

“No. Io sono scandalizzato dalla gestione della sanità in Lombardia. Trovo che ci sia una spaccatura netta tra chi gestisce gli ospedali da fuori e le persone che ci lavorano dentro. Questa emergenza conferma l’idea negativa che mi ero già fatto prima, con l’esperienza dei miei genitori, della macchina organizzativa. Mia moglie, per tornare a lei, è stata chiamata e a suo tempo invitata a rimanere a casa fino al 24 marzo, per 14 giorni dopo il mio ricovero, poi nessuno si è fatto più sentire. Io sono stato invece dimesso, dopo un’ultima settimana in un’altra struttura, perché non necessitavo di altre cure e sono in attesa dell’esito dell’ultimo tampone”.

Esiste una questione politica?

“Esiste il rischio che si tratti il tema affrontandolo solo da quel lato. Invece mai come ora abbiamo bisogno di levarci le maglie della nostra squadra e di smettere di essere tifosi. Occorre una riflessione sulle persone e sulla adeguatezza del ruolo”.

Alla fine di questa esperienza cosa ha riportato a casa?

“Il fatto che quando pensiamo che qualcosa sia lontano da noi e non ci possa toccare, non è affatto vero. Il fatto che vivevamo con la convinzione che la Lombardia fosse un mondo perfetto e così non è. In questo senso dovremo fare tutti una bagno di umiltà. Infine l’elemento umano di chi mi ha curato, in quei giorni medici e infermieri sono stati straordinari e noi tutti i malati abbiamo sentito che facevano il tifo per noi”.

Vuole con concludere lasciando un messaggio positivo?

“Io penso che ci aspetti un periodo difficile. Ma ce la faremo solo se capiremo che facciamo tutti parte di un motore che deve ripartire con la spinta di tutti. Senza che ognuno di noi stia ad aspettare che arrivi dall’alto l’aiuto di qualcuno. Sono dell’idea che ognuno dovrà fare la sua parte senza diffondere negatività, pensando che questo passaggio ci porterà a ripensare profondamente a quello che vogliamo per il nostro futuro”.

 

La lettura di oggi: Non è il momento di dire bugie

Un articolo interessante del sempre chiaro Francesco Costa su Il Post di ieri

Questa cosa non è vera. Ma proprio clamorosamente. Decine di migliaia di persone in Italia – e probabilmente di più – lo sanno bene perché è capitato a loro, o a una persona a loro vicina. Ed è doloroso ascoltare una bugia di queste proporzioni da persone di questa responsabilità in un contesto così delicato.

Una volta per tutte: le raccomandazioni del ministero, diffuse con una circolare del 27 febbraio e poi con una del 9 marzo, dicono che devono essere sottoposte a tampone le persone con infezione respiratoria acuta, cioè «insorgenza improvvisa di almeno uno tra i seguenti segni e sintomi: febbre, tosse e difficoltà respiratoria». È chiaramente specificato che il tampone è raccomandato in presenza di questi sintomi indipendentemente dal ricovero ospedaliero («che richieda il ricovero o meno», dice la circolare). Le raccomandazioni dell’OMS, poi, sono «fate i test, fate i test, fate i test». Siamo stati sgridati per questo: ampliare il numero di test è considerato cruciale per contenere l’epidemia e prendere le migliori decisioni sul percorso di uscita da questa crisi.

Eppure in Italia ci sono sicuramente moltissime persone che pur ricadendo nelle categorie indicate dal ministero e dall’OMS – pur trovandosi in situazioni in cui esisteva eccome «l’indicazione a farlo», per usare le parole del professor Villani – non sono state sottoposte al tampone.

Lo dimostrano le testimonianze drammatiche che tutti i mezzi di informazione, tra cui il Post, raccolgono da giorni da decine di medici di base, medici ospedalieri, infermieri e anestesisti in Lombardia; lo dimostrano le migliaia di persone morte in casa o nelle case di riposo con sintomi gravi compatibili con la COVID-19 e mai sottoposte al tampone, nonostante le ripetute richieste rivolte alle autorità sanitarie; lo dimostrano le esperienze di tantissime persone – disponibili ovunque, dai giornali ai social network fino probabilmente al vostro condominio, se vivete in Lombardia – che pur manifestando sintomi importanti e a volte anche convivendo con una persona risultata positiva al coronavirus, non sono mai riuscite a farsi testare. Qui non si parla della questione del tampone alle persone asintomatiche o lievemente sintomatiche: si parla di persone con sintomi acuti – migliaia di queste sono addirittura morte – che non sono mai state testate.

Non è la prima volta che gli italiani sono costretti ad ascoltare questa bugia. La regione Lombardia continua a sostenere di aver «rigorosamente seguito i protocolli che sono stati dettati dall’Istituto Superiore di Sanità», quando in realtà è più facile ottenere una radiografia ai polmoni – che permette ai medici di riconoscere i sintomi della COVID-19 e arrangiarsi di conseguenza – che un tampone. Addirittura in molti casi non si riescono a fare nemmeno i tamponi di controllo, quelli necessari per accertare la guarigione dei pazienti, che intanto aspettano per giorni di tornare alle loro vite. Il molto annunciato aumento del numero di tamponi effettuati in Lombardia ancora non si è visto. Non è solo una questione di correttezza, sia chiaro: le carenze della Lombardia sui test compromettono il contenimento dell’epidemia, e le modalità e i percorsi con cui potremo uscire da questa situazione e tornare alle nostre vite.

Anche il vicedirettore della Protezione Civile, Agostino Miozzo, durante la conferenza stampa di mercoledì della settimana scorsa ha detto che «si fanno i tamponi che il Sistema Sanitario Nazionale ritiene necessario fare sulla base delle indicazioni che ci sono suggerite dalle organizzazioni internazionali». Non è vero.

In Lombardia non si fanno i tamponi che il sistema sanitario ritiene necessario fare, ma quelli che il sistema sanitario riesce a fare, a prescindere dai protocolli: e quindi molti meno di quelli che sarebbe necessario fare se si volessero seguire le indicazioni nazionali e internazionali. In altre regioni si sono visti approcci diversi e grandi miglioramenti su questo fronte: in Lombardia no. Poco dopo Miozzo ha aggiunto, parlando dei tamponi, che «c’è una policy di ricerca dei pazienti soprattutto sintomatici o dei loro contatti stretti». Non è vero neanche questo. Al contrario, la stampa in questi giorni ha ottenuto decine di testimonianze di familiari e conviventi di persone affette da COVID-19 che pur manifestando i sintomi della malattia non sono mai state testate, e a cui le autorità sanitarie hanno dato la sola istruzione di restare a casa come tutti.

Sempre durante la conferenza stampa di ieri, Borrelli ha detto anche un’altra cosa purtroppo non vera:

Sono stati purtroppo proprio i medici e i rianimatori i primi a raccontare dolorosamente che in Lombardia per settimane non ci sono stati posti per tutti in terapia intensiva, e forse solo negli ultimi giorni le cose stanno cominciando a migliorare. Di nuovo, in Lombardia ci sono addirittura migliaia di persone – migliaia di persone – che sono morte in casa: che avrebbero avuto bisogno eccome di soccorsi, eppure non è stato possibile soccorrere. Residenze per anziani che si sono svuotate in pochi giorni e in cui le ambulanze non sono mai arrivate. Pazienti che non è stato possibile curare finché le loro condizioni non si sono deteriorate in modo irreparabile. Non uno o due: tanti. Il comprensibile desiderio di rassicurare la popolazione non può trasformarsi in una licenza a dire cose che non sono vere, peraltro da pulpiti così importanti e ufficiali.

Verrà il momento di discutere di cosa sia andato storto in Lombardia, che è stata travolta dall’epidemia con una forza maggiore che in qualsiasi altro posto d’Italia e forse del mondo. Così come verrà il momento di capire come mai a oltre un mese dall’inizio dell’epidemia non siamo ancora in grado di avere dei dati che permettano di misurare con una qualche affidabilità il numero di persone contagiate e il numero di persone morte. Può darsi che non si potesse fare più di così. Possiamo accettare che, pur avendo tutti le migliori intenzioni, in una situazione così straordinaria questo sia il massimo che fosse possibile fare. Ma allora sarebbe rispettoso e onesto dire questo, e non una bugia.

La lettura di oggi : Che pianeta sarà quello post Covid-19?

Da Wired una riflessione del giornalista Luigi Mastrodonato

L’unica certezza di questi tempi senza certezze, è che il 2020 cambierà per sempre le nostre vite, le nostre abitudini, la nostra quotidianità. Se in molti hanno potuto toccare con mano le tragedie di diversa natura nei decenni scorsi, tra guerrecalamità naturali e quant’altro, per un’ampia fetta della popolazione globale la situazione attuale costituisce invece una novità.
La presa di consapevolezza della malattia, la paura del contagio, le limitazioni estreme delle libertà personali, la solitudine hanno sostituito una vita agiata e spensierata nel migliore dei casi, una vita con preoccupazioni nemmeno paragonabili a quelle attuali nel peggiore. E se questo è quello che stiamo vivendo ora, quando tutto sarà finito il boccone non potrà comunque considerarsi digerito. Le conseguenze della pandemia le sentiremo a lungo e il mondo in cui ci ritroveremo proiettati avrà poco a che fare con quello a cui eravamo stati abituati. Storicamente portati a definire il tempo in un avanti e dopo Cristo, probabilmente ripartiremo ora da una sorta di anno zero, con il Covid-19 a fare da spartiacque delle nostre esistenze.

L’Onu ha lanciato l’allarme su quella che è la crisi sanitaria peggiore con cui ha avuto a che fare nei suoi 75 anni di vita. La caratteristica del Covid-19 in effetti è che, a differenza di altre tragedie, non conosce confini e sta colpendo ogni continente senza distinzioni di sorta. Non esistono più frontiere nel dramma sanitario, o forse il dramma sanitario ci ha ricordato che i confini non sono mai esistiti, che la popolazione globale è sempre e comunque sulla stessa barca, al di là di quelle linee immaginarie disegnate su una cartina. Ecco perché rischiamo di dover contare milioni di morti nei prossimi mesi, perché la tragedia non è circoscrivibile. Una strage collettiva, il rischio che in molti vedranno almeno un conoscente non farcela, ma anche la presa di consapevolezza su cosa sia una pandemia. Staremo più attenti forse, la sottovalutazione del rischio non sarà più, o non lo sarà quanto ora, una prerogativa umana e ogni campanello d’allarme su questa o quella crisi imminente di sicuro avrà una platea di ascoltatori più attenti. Nel dramma del coronavirus, l’umanità avrà compiuto un processo di maturazione e responsabilizzazione. È un fatto positivo, ma è triste che sarà servito tutto questo per arrivarci.

Ci ritroveremo in un mondo diverso. Un mondo dove l’economia sarà al collasso, che dovrà ricostruirsi sulle sue macerie. L’effetto del virus sull’economia italiana sarà più o meno lo stesso dei primi anni Quaranta dicono, quando il paese era sferzato dalla seconda guerra mondiale. È una notizia tragica, ma non bisogna dimenticare che poi ci si è saputi rialzare, con il boom economico. I primi anni saranno comunque difficili, serve uno spirito di resistenza importante. Secondo l’Organizzazione mondiale del lavoro la pandemia provocherà 25 milioni di disoccupati nel mondo – che si aggiungeranno al già ingente esercito di senza lavoro. I programmi per la riduzione della povertà andranno riscritti, in molti casi ci sarà da ricominciare il lavoro da capo e tutto questo andrà fatto in un contesto di crisi economica, dove il welfare farà già di per sè fatica a reggersi in piedi. 

Ma è proprio qui che si dovrà puntare, è questa la lezione che il Covid-19 ci lascerà. Gli investimenti pubblici nel sistema sociale andranno rafforzati, nella crisi si è compreso per esempio l’importanza della sanità pubblica ma anche i danni tremendi che stanno causando i tagli che essa ha subito. Manca personale, mancano gli strumenti, mancano le strutture: non si potranno ripetere errori simili e il sistema andrà rinnovato, senza però stravolgerne la natura. 

Ma nell’anno uno post Covid-19, non bisognerà abbassare la guardia sulla cosa più importante che abbiamo, la democrazia. In questi tempi di pandemia molti diritti sono stati sospesi, la privacy è messa in discussione. La democrazia è, di fatto, in stand-by. Siamo in guerra, ci dicono, e accettiamo che le cose vadano così se questo servirà a salvare vite e ridarci una vita normale. Ma quando tutto sarà finito, sarà fondamentale che le conquiste civili di secoli vengano ripristinate in toto. Il Covid-19 non deve essere per esempio il pretesto per una sorveglianza di massa definitiva, quando l’emergenza che oggi la giustifica non ci sarà.

Sarà un nuovo mondo, quello in cui ci troveremo catapultati. Un modo che dovrà essere abile a ripristinare le certezze del passato, ma anche a non commettere gli errori fatti. Un mondo di persone diventati grandi, più consapevoli, che proprio grazie a questo sapranno meglio affrontare i primi anni difficili che lo caratterizzeranno. La certezza è che non si può più tornare indietro, nulla sarà più come prima. La speranza è che potremmo rendercene conto presto, perchè vorrà dire che sarà ripartita la ricostruzione.

 

La lettura di oggi: Cosa succederà

Un po’ inquietante ma purtroppo molto verosimile. Il vice-direttore de Il Post Francesco Costa ci parla dell’emergenza che ci sta coinvolgendo ogni giorno di più e che, in molti casi, davvero non è una comune influenza. Scritto prima del nuovo decreto che chiude la Lombardia e 14 province (fra cui la mia, Alessandria).

Cosa succederà

Questa cosa non finirà tra quindici giorni. Nemmeno tra due mesi. Non ci sono ragioni razionali per pensare che possa finire presto, nonostante quello che speriamo tutti. Eppure una parte non indifferente del problema è che non sappiamo cosa succederà. Non solo: che non siamo nemmeno in grado di evocare degli scenari possibili.

Proviamoci. Partiamo da cosa stiamo facendo adesso.

Da una parte, bisogna provare a rallentare l’inevitabile allargamento dell’epidemia. Le parole chiave nella frase precedente sono “rallentare”, “inevitabile” e “allargamento”. Il nuovo coronavirus è probabilmente incontenibile, come diventa evidente ogni giorno che passa e come ha spiegato un importante epidemiologo di Harvard: lo prenderemo in tanti (lui dice addirittura tra il 40 e il 70 per cento della popolazione mondiale) e per moltissimi di noi sarà semplicemente un’influenza. Il virus non è stato ancora contenuto davvero nemmeno in Cina, dove sono in vigore da settimane misure di isolamento pesantissime che in larga parte del resto del mondo sarebbe impossibile implementare. Niente ci vieta di sperare in un miracolo, e sarei molto felice di essere smentito, ma credo che possiamo serenamente ammettere che lo scenario più probabile è che il virus continui a propagarsi. Sempre secondo gli esperti, il nuovo coronavirus probabilmente resterà in circolazione per gli anni a venire, unendosi agli altri coronavirus già noti, quelli che ci fanno venire di tanto in tanto la febbre e il raffreddore: noi nel frattempo svilupperemo anticorpi e vaccini, e col passare del tempo saremo quindi sempre meno esposti.

Col passare del tempo, però. Non adesso.

Il fatto che adesso il nuovo coronavirus sia, per l’appunto, nuovo, lo rende molto contagioso, molto più della normale influenza, perché non abbiamo ancora gli anticorpi per difenderci adeguatamente. Il fatto che attualmente non esista un vaccino allarga ulteriormente il numero dei potenziali contagiati, molto più di quanto avviene con la normale influenza. Siamo tutti molto più esposti al contagio. Il fatto che questo virus sia più aggressivo sulle vie respiratorie della normale influenza, infine, produce un rilevante aumento delle persone che richiedono un ricovero. Il rischio, insomma, è che la somma di questi fattori metta sotto enorme pressione gli ospedali, i reparti di rianimazione e terapia intensiva, come sta già accadendo. Le misure che stiamo adottando in Italia e nei paesi con i focolai più grandi non servono a debellare il virus. Quella nave è salpata. Le misure servono a rallentare l’inevitabile allargamento dell’epidemia: a evitare di ammalarci tutti insieme.

Lo stesso identico numero di contagi, spalmato su un periodo di tempo più lungo, evita che molte persone muoiano.

Dall’altra parte, bisogna provare a evitare che la fuga da un guaio, l’epidemia, finisca per creare un guaio altrettanto grosso, cioè il parziale collasso dell’economia. Chiunque tra voi lavori per un’attività commerciale – come imprenditore o come impiegato – sa che razza di settimana è stata la scorsa settimana. Le aziende grandi e piccole stanno perdendo tanti, ma tanti, ma tanti di quei soldi che è molto difficile immaginare possano essere recuperati tutti quando tutto questo finirà. E siccome questo potrebbe impiegare un bel po’ a finire, nel frattempo molti rischiano di andare a gambe all’aria: vale sia per la profumeria sotto casa che per l’industria di componentistica, sia per il libero professionista che per la compagnia aerea. Con tutti i loro dipendenti, collaboratori, fornitori, e le loro famiglie. Certi danni sono riparabili; non tutti.

Siccome siete lettori intelligenti, capite benissimo che non è questione di scegliere tra la propria salute e il vil denaro: si parla in entrambi i casi delle nostre vite. Abbiamo fresco abbastanza il ricordo dell’ultima crisi da ricordarci cosa comporti una grave crisi economica, anche e soprattutto in termini di salute e sofferenze. Di sacrifici, di rinunce, di traumi, di dolori, di disagio, di cure, in certi casi di morte. E quindi in questi giorni viviamo impulsi laceranti, perché la protezione delle nostre stesse vite – intese nel senso più pieno possibile – ci spinge a comportamenti elementari e contraddittori: chiudersi in casa e uscire di casa. Entrambe le cose possono farci bene. Entrambe le cose possono farci male.

Veniamo a noi, quindi. I dati e la realtà ci dicono che i contagi stanno aumentando abbastanza da mettere in difficoltà già adesso gli ospedali, nonostante misure di contenimento che nelle regioni più colpite dal virus sono già molto dure. E parliamo comunque di meno di 2.000 contagiati su sessanta milioni di abitanti. La cosa più plausibile è che questo numero continui a crescere. Auspicabilmente non troppo in fretta, ma al prezzo allora di proseguire le misure restrittive adottate fin qui e anzi probabilmente estenderle alle regioni che oggi non ne sono coinvolte, almeno fin quando non dovessimo riuscire a rafforzare la capacità dei nostri ospedali o sviluppare un vaccino. Ma parliamo di molti mesi.

Dall’altra parte, quelle misure restrittive e la paura delle persone stanno facendo danni non indifferenti all’economia (e cioè alle persone stesse). Altro che “Milano non si ferma”: capisco le buone intenzioni ma Milano si è fermata, come una buona parte delle due regioni economicamente più rilevanti del paese. La città in cui vivo in questi giorni è abbastanza irriconoscibile, come molte altre; e come in mezza Italia sono irriconoscibili gli aeroporti, le stazioni, i treni. Tutte le cose che di solito fanno le persone che di solito li affollano, non stanno avvenendo. Ci sarà un conto da pagare.

In questi giorni siamo tutti epidemiologi e capi della Protezione Civile, e non facciamo altro che discutere di norme e leggi e ordinanze e limiti dei quali non capiamo il senso. Che senso ha riaprire le scuole tra sette o dieci giorni, che senso ha averle chiuse? Cosa sarà cambiato tra una settimana? Perché i bar possono restare aperti ma solo fino alle 18? Perché questo sì e quello no? Perché qui sì e lì no? Il punto è proprio la tensione tra i due obiettivi di cui sopra. Dobbiamo rallentare i contagi ma non dobbiamo fermare l’economia. Dobbiamo essere molto responsabili con i nostri comportamenti, soprattutto se pensiamo di avere dei sintomi, ma non dobbiamo smettere del tutto di uscire di casa, entrare nei negozi, provare un paio di jeans, cercare una nuova tv, comprare un libro. Per quanto non sarà semplice trovare un punto di equilibrio, evidentemente lo troveremo.

Provo a semplificare brutalmente. Una possibilità è che il “desiderio di normalità” di ciascuno di noi – e le comprensibili disperate pressioni di chi tra noi soffrirà di più sul piano economico – ci portino piano piano, un giorno dopo l’altro, a diventare un po’ più fatalisti. A uscire di casa un po’ di più e non un po’ di meno, a prendere quel treno, a non rimandare ulteriormente quella riunione. A capire che non ci si può chiudere in casa per sei mesi e decidere quindi di correre qualche rischio, ogni giorno qualcuno in più. Ad allentare le maglie delle misure di sicurezza ufficiali e ufficiose: quelle dettate dall’alto e quelle che ciascuno di noi detta a se stesso. Il tutto a costo di far accelerare il ritmo dei contagi e tollerare quindi, per quanto dolorosamente, un numero di ammalati e quindi anche di morti più alto dell’attuale.

Un’altra possibilità è che diventi questa, la nuova normalità. Uscire il meno possibile. Viaggiare il meno possibile. Riunirsi il meno possibile. Rischiare il meno possibile. Il tutto a costo di tollerare l’atrofizzarsi delle nostre vite e quindi, pur di salvarle, anche le dolorose conseguenze che ne arriveranno. I locali chiuderanno. Le attività già in qualche difficoltà dichiareranno fallimento. Molte persone saranno licenziate. Molte persone saranno disperate e arrabbiate, con le conseguenze che possiamo immaginare.

Sono entrambi scenari pessimisti, lo so. Ma sono entrambi plausibili. Il punto di equilibrio che troveremo si posizionerà da qualche parte in questo spettro. In qualche modo, scopriremo chi siamo: ognuno di noi e tutti insieme.