La verità vi farà liberi

Oggi voglio proporvi il messaggio di Papa Francesco per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali. Io l’ho letto per caso e trovo che sia davvero, come qualcuno ha scritto, una vera e propria lezione di giornalismo. Il titolo è “La verità vi farà liberi”, che è una frase del Vangelo di Giovanni. Il sottotitolo, esplicativo e moderno, è “Fake news e giornalismo di pace“. Davvero un’analisi lucida con punti di vista a cui non avevo pensato. Spero abbiate piacere di leggerlo come è capitato a me.

« La verità vi farà liberi (Gv 8,32).
Fake news e giornalismo di pace»

Cari fratelli e sorelle,

nel progetto di Dio, la comunicazione umana è una modalità essenziale per vivere la comunione. L’essere umano, immagine e somiglianza del Creatore, è capace di esprimere e condividere il vero, il buono, il bello. E’ capace di raccontare la propria esperienza e il mondo, e di costruire così la memoria e la comprensione degli eventi. Ma l’uomo, se segue il proprio orgoglioso egoismo, può fare un uso distorto anche della facoltà di comunicare, come mostrano fin dall’inizio gli episodi biblici di Caino e Abele e della Torre di Babele (cfr Gen 4,1-16; 11,1-9). L’alterazione della verità è il sintomo tipico di tale distorsione, sia sul piano individuale che su quello collettivo. Al contrario, nella fedeltà alla logica di Dio la comunicazione diventa luogo per esprimere la propria responsabilità nella ricerca della verità e nella costruzione del bene. Oggi, in un contesto di comunicazione sempre più veloce e all’interno di un sistema digitale, assistiamo al fenomeno delle “notizie false”, le cosiddette fake news: esso ci invita a riflettere e mi ha suggerito di dedicare questo messaggio al tema della verità, come già hanno fatto più volte i miei predecessori a partire da Paolo VI (cfr Messaggio 1972: Le comunicazioni sociali al servizio della verità). Vorrei così offrire un contributo al comune impegno per prevenire la diffusione delle notizie false e per riscoprire il valore della professione giornalistica e la responsabilità personale di ciascuno nella comunicazione della verità.

1. Che cosa c’è di falso nelle “notizie false”?

Fake news è un termine discusso e oggetto di dibattito. Generalmente riguarda la disinformazione diffusa online o nei media tradizionali. Con questa espressione ci si riferisce dunque a informazioni infondate, basate su dati inesistenti o distorti e mirate a ingannare e persino a manipolare il lettore. La loro diffusione può rispondere a obiettivi voluti, influenzare le scelte politiche e favorire ricavi economici.

L’efficacia delle fake news è dovuta in primo luogo alla loro natura mimetica, cioè alla capacità di apparire plausibili. In secondo luogo, queste notizie, false ma verosimili, sono capziose, nel senso che sono abili a catturare l’attenzione dei destinatari, facendo leva su stereotipi e pregiudizi diffusi all’interno di un tessuto sociale, sfruttando emozioni facili e immediate da suscitare, quali l’ansia, il disprezzo, la rabbia e la frustrazione. La loro diffusione può contare su un uso manipolatorio dei social network e delle logiche che ne garantiscono il funzionamento: in questo modo i contenuti, pur privi di fondamento, guadagnano una tale visibilità che persino le smentite autorevoli difficilmente riescono ad arginarne i danni.

La difficoltà a svelare e a sradicare le fake news è dovuta anche al fatto che le persone interagiscono spesso all’interno di ambienti digitali omogenei e impermeabili a prospettive e opinioni divergenti. L’esito di questa logica della disinformazione è che, anziché avere un sano confronto con altre fonti di informazione, la qual cosa potrebbe mettere positivamente in discussione i pregiudizi e aprire a un dialogo costruttivo, si rischia di diventare involontari attori nel diffondere opinioni faziose e infondate. Il dramma della disinformazione è lo screditamento dell’altro, la sua rappresentazione come nemico, fino a una demonizzazione che può fomentare conflitti. Le notizie false rivelano così la presenza di atteggiamenti al tempo stesso intolleranti e ipersensibili, con il solo esito che l’arroganza e l’odio rischiano di dilagare. A ciò conduce, in ultima analisi, la falsità.

2. Come possiamo riconoscerle?

Nessuno di noi può esonerarsi dalla responsabilità di contrastare queste falsità. Non è impresa facile, perché la disinformazione si basa spesso su discorsi variegati, volutamente evasivi e sottilmente ingannevoli, e si avvale talvolta di meccanismi raffinati. Sono perciò lodevoli le iniziative educative che permettono di apprendere come leggere e valutare il contesto comunicativo, insegnando a non essere divulgatori inconsapevoli di disinformazione, ma attori del suo svelamento. Sono altrettanto lodevoli le iniziative istituzionali e giuridiche impegnate nel definire normative volte ad arginare il fenomeno, come anche quelle, intraprese dalle tech e media company, atte a definire nuovi criteri per la verifica delle identità personali che si nascondono dietro ai milioni di profili digitali.

Ma la prevenzione e l’identificazione dei meccanismi della disinformazione richiedono anche un profondo e attento discernimento. Da smascherare c’è infatti quella che si potrebbe definire come “logica del serpente”, capace ovunque di camuffarsi e di mordere. Si tratta della strategia utilizzata dal «serpente astuto», di cui parla il Libro della Genesi, il quale, ai primordi dell’umanità, si rese artefice della prima “fake news” (cfr Gen 3,1-15), che portò alle tragiche conseguenze del peccato, concretizzatesi poi nel primo fratricidio (cfr Gen 4) e in altre innumerevoli forme di male contro Dio, il prossimo, la società e il creato. La strategia di questo abile «padre della menzogna» (Gv 8,44) è proprio la mimesi, una strisciante e pericolosa seduzione che si fa strada nel cuore dell’uomo con argomentazioni false e allettanti. Nel racconto del peccato originale il tentatore, infatti, si avvicina alla donna facendo finta di esserle amico, di interessarsi al suo bene, e inizia il discorso con un’affermazione vera ma solo in parte: «È vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino?”» (Gen 3,1). Ciò che Dio aveva detto ad Adamo non era in realtà di non mangiare di alcun albero, ma solo di un albero: «Dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare» (Gen 2,17). La donna, rispondendo, lo spiega al serpente, ma si fa attrarre dalla sua provocazione: «Del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: “Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”» (Gen 3,2). Questa risposta sa di legalistico e di pessimistico: avendo dato credibilità al falsario, lasciandosi attirare dalla sua impostazione dei fatti, la donna si fa sviare. Così, dapprima presta attenzione alla sua rassicurazione: «Non morirete affatto» (v. 4). Poi la decostruzione del tentatore assume una parvenza credibile : «Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male» (v. 5). Infine, si giunge a screditare la raccomandazione paterna di Dio, che era volta al bene, per seguire l’allettamento seducente del nemico: «La donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile» (v. 6). Questo episodio biblico rivela dunque un fatto essenziale per il nostro discorso: nessuna disinformazione è innocua; anzi, fidarsi di ciò che è falso, produce conseguenze nefaste. Anche una distorsione della verità in apparenza lieve può avere effetti pericolosi.

In gioco, infatti, c’è la nostra bramosia. Le fake news diventano spesso virali, ovvero si diffondono in modo veloce e difficilmente arginabile, non a causa della logica di condivisione che caratterizza i social media, quanto piuttosto per la loro presa sulla bramosia insaziabile che facilmente si accende nell’essere umano. Le stesse motivazioni economiche e opportunistiche della disinformazione hanno la loro radice nella sete di potere, avere e godere, che in ultima analisi ci rende vittime di un imbroglio molto più tragico di ogni sua singola manifestazione: quello del male, che si muove di falsità in falsità per rubarci la libertà del cuore. Ecco perché educare alla verità significa educare a discernere, a valutare e ponderare i desideri e le inclinazioni che si muovono dentro di noi, per non trovarci privi di bene “abboccando” ad ogni tentazione.

3. «La verità vi farà liberi» (Gv 8,32)

La continua contaminazione con un linguaggio ingannevole finisce infatti per offuscare l’interiorità della persona. Dostoevskij scrisse qualcosa di notevole in tal senso: «Chi mente a sé stesso e ascolta le proprie menzogne arriva al punto di non poter più distinguere la verità, né dentro di sé, né intorno a sé, e così comincia a non avere più stima né di sé stesso, né degli altri. Poi, siccome non ha più stima di nessuno, cessa anche di amare, e allora, in mancanza di amore, per sentirsi occupato e per distrarsi si abbandona alle passioni e ai piaceri volgari, e per colpa dei suoi vizi diventa come una bestia; e tutto questo deriva dal continuo mentire, agli altri e a sé stesso» (I fratelli Karamazov, II, 2).

Come dunque difenderci? Il più radicale antidoto al virus della falsità è lasciarsi purificare dalla verità. Nella visione cristiana la verità non è solo una realtà concettuale, che riguarda il giudizio sulle cose, definendole vere o false. La verità non è soltanto il portare alla luce cose oscure, “svelare la realtà”, come l’antico termine greco che la designa, aletheia (da a-lethès, “non nascosto”), porta a pensare. La verità ha a che fare con la vita intera. Nella Bibbia, porta con sé i significati di sostegno, solidità, fiducia, come dà a intendere la radice ‘aman, dalla quale proviene anche l’Amen liturgico. La verità è ciò su cui ci si può appoggiare per non cadere. In questo senso relazionale, l’unico veramente affidabile e degno di fiducia, sul quale si può contare, ossia “vero”, è il Dio vivente. Ecco l’affermazione di Gesù: «Io sono la verità» (Gv 14,6). L’uomo, allora, scopre e riscopre la verità quando la sperimenta in sé stesso come fedeltà e affidabilità di chi lo ama. Solo questo libera l’uomo: «La verità vi farà liberi» (Gv 8,32).

Liberazione dalla falsità e ricerca della relazione: ecco i due ingredienti che non possono mancare perché le nostre parole e i nostri gesti siano veri, autentici, affidabili. Per discernere la verità occorre vagliare ciò che asseconda la comunione e promuove il bene e ciò che, al contrario, tende a isolare, dividere e contrapporre. La verità, dunque, non si guadagna veramente quando è imposta come qualcosa di estrinseco e impersonale; sgorga invece da relazioni libere tra le persone, nell’ascolto reciproco. Inoltre, non si smette mai di ricercare la verità, perché qualcosa di falso può sempre insinuarsi, anche nel dire cose vere. Un’argomentazione impeccabile può infatti poggiare su fatti innegabili, ma se è utilizzata per ferire l’altro e per screditarlo agli occhi degli altri, per quanto giusta appaia, non è abitata dalla verità. Dai frutti possiamo distinguere la verità degli enunciati: se suscitano polemica, fomentano divisioni, infondono rassegnazione o se, invece, conducono ad una riflessione consapevole e matura, al dialogo costruttivo, a un’operosità proficua.

4. La pace è la vera notizia

Il miglior antidoto contro le falsità non sono le strategie, ma le persone: persone che, libere dalla bramosia, sono pronte all’ascolto e attraverso la fatica di un dialogo sincero lasciano emergere la verità; persone che, attratte dal bene, si responsabilizzano nell’uso del linguaggio. Se la via d’uscita dal dilagare della disinformazione è la responsabilità, particolarmente coinvolto è chi per ufficio è tenuto ad essere responsabile nell’informare, ovvero il giornalista, custode delle notizie. Egli, nel mondo contemporaneo, non svolge solo un mestiere, ma una vera e propria missione. Ha il compito, nella frenesia delle notizie e nel vortice degli scoop, di ricordare che al centro della notizia non ci sono la velocità nel darla e l’impatto sull’audience, ma le persone. Informare è formare, è avere a che fare con la vita delle persone. Per questo l’accuratezza delle fonti e la custodia della comunicazione sono veri e propri processi di sviluppo del bene, che generano fiducia e aprono vie di comunione e di pace.

Desidero perciò rivolgere un invito a promuovere un giornalismo di pace, non intendendo con questa espressione un giornalismo “buonista”, che neghi l’esistenza di problemi gravi e assuma toni sdolcinati. Intendo, al contrario, un giornalismo senza infingimenti, ostile alle falsità, a slogan ad effetto e a dichiarazioni roboanti; un giornalismo fatto da persone per le persone, e che si comprende come servizio a tutte le persone, specialmente a quelle – sono al mondo la maggioranza – che non hanno voce; un giornalismo che non bruci le notizie, ma che si impegni nella ricerca delle cause reali dei conflitti, per favorirne la comprensione dalle radici e il superamento attraverso l’avviamento di processi virtuosi; un giornalismo impegnato a indicare soluzioni alternative alle escalation del clamore e della violenza verbale.

Per questo, ispirandoci a una preghiera francescana, potremmo così rivolgerci alla Verità in persona:

Signore, fa’ di noi strumenti della tua pace.
Facci riconoscere il male che si insinua in una comunicazione che non crea comunione.
Rendici capaci di togliere il veleno dai nostri giudizi.
Aiutaci a parlare degli altri come di fratelli e sorelle.
Tu sei fedele e degno di fiducia; fa’ che le nostre parole siano semi di bene per il mondo:
dove c’è rumore, fa’ che pratichiamo l’ascolto;
dove c’è confusione, fa’ che ispiriamo armonia;
dove c’è ambiguità, fa’ che portiamo chiarezza;
dove c’è esclusione, fa’ che portiamo condivisione;
dove c’è sensazionalismo, fa’ che usiamo sobrietà;
dove c’è superficialità, fa’ che poniamo interrogativi veri;
dove c’è pregiudizio, fa’ che suscitiamo fiducia;
dove c’è aggressività, fa’ che portiamo rispetto;
dove c’è falsità, fa’ che portiamo verità.
Amen.

Meno odio sul web? E nella vita?

Pare che, dopo l’appello dell’Europa di qualche tempo fa, i social come Facebook, Youtube, Twitter, Instagram e G+, abbiano provveduto a monitorare maggiormente i post degli utenti e che provvedano a cancellare il 70% in più, rispetto agli scorsi anni, i messaggi che incitano all’odio o che comunque si configurano come violenti e razzisti. Forse. Io però, che queste piattaforme frequento molto anche per lavoro, noto sì meno post definibili di odio, in partenza. Ma se poi si leggono i commenti che ne seguono c’è sempre da rabbrividire per l’ignoranza, il qualunquismo, l’odio e la violenza verbale che emanano. E non solo su pagine che trattano di politica o di sport: ormai anche su gruppi che dovrebbero solo discutere di hobby o passioni che accomunano – o dovrebbero accomunare –  gli iscritti. Ma quello che maggiormente mi fa riflettere è che da qualche tempo questa rabbia la sento anche nella vita di tutti i giorni, nei rapporti tra le persone. Mi è capitato di assistere a litigi in luoghi pubblici dove i protagonisti hanno utilizzato un linguaggio che fino a pochi anni fa non era assolutamente pensabile tra persone civili. Il mio timore è quindi che questa estrema libertà di espressione che, chissà perché, è diventata “normale” sul web, si stia anche trasferendo nei, sempre più rari, rapporti umani reali. C’è un’intolleranza ed un egoismo palese che un tempo magari esisteva ugualmente ma che, almeno, ci si vergognava ad esporre. Insomma: ci si manda tranquillamente affanculo in mezzo alla strada, al bar, al ristorante, sull’autobus, da un’automobile all’altra, in riunione, in ufficio… A me non è ancora capitato di trascendere fino a questi punti, per fortuna. E neppure di subire certi attacchi verbali. In questo caso non so come potrei reagire ma spero comunque di conservare il mio aplomb senza scendere quindi al livello del mio interlocutore. Tornando ai commenti sul web, quelli su questo blog sono moderati, quindi ovviamente non saranno mai pubblicati quelli di eventuali haters

Il Tide Pod Challenge

Davvero si leggono cose inaudite. Pare che l’ultima moda dilagante in USA ma che, naturalmente, sta conquistando anche altri paesi occidentali, sia quella di filmarsi mentre si ingeriscono capsule di detersivo per lavatrice. Questa pratica ha già un nome, Tide Pod Challenge, e se qualche tempo fa l’Ice Bucket Challenge almeno doveva servire a promuovere la conoscenza di una malattia e non aveva altre conseguenze se non magari un bel raffreddore visto che ci si buttava addosso del ghiaccio, questa, che viene spacciata per una prova di coraggio, ha già provocato intossicazioni ed anche qualche vittima. Come minimo l’ingestione delle capsule può provocare vomito, diarrea, difficoltà respiratorie, svenimenti, ma le conseguenze possono essere molto peggiori spiegano gli esperti. YouTube e Facebook hanno già annunciato che rimuoveranno i filmati che mostrano queste azioni cretine. Il fenomeno pare sia iniziato dopo un video  di una trasmissione televisiva americana in cui si vedeva uno studente che tentava di mangiare le coloratissime e “appetitose” capsule di detersivo, ma mai gli autori si sarebbero aspettati la nascita di questo fenomeno assurdo. Rob Gronkowski, stella della squadra di football americano New England Patriots, ha registrato un video per convincere i giovani a desistere da questo challange (lo vedete più sotto). Ma è possibile arrivare a questi punti? Forse davvero ormai ci meritiamo l’estinzione.

Torna al tuo paese

Guardate il video sopra. E’ stato ripreso nella Metropolitana di Londra. La persona fatta oggetto di insulti decisamente razzisti è un italiano. Credo di non dover aggiungere altro.

Gli idioti che filmano gli incidenti

Pare che il fenomeno delle persone che in autostrada si fermano quando vedono un incidente, fenomeno dei “curiosi” che purtroppo ci sono sempre stati e che ostacolano i soccorsi, sia lungi dall’ essere in diminuzione ma, anzi, adesso è peggiorato perché questi idioti fanno anche selfie e video con il telefonino. Roba davvero da non credere. È un fenomeno questa volta, per fortuna, non solo italiano. Anzi: pare che i tedeschi siano ancora più voyeuristi estremi di noi. In Germania li chiamano “gaffer”, ma sono sempre e comunque davvero grandissimi idioti. Tanto che i vigili del fuoco tedeschi hanno realizzato un video – che sta diventando virale -proprio per combattere questa mania dilagante. E’ un corto che vede tre giovani adulti che ritornano dalle vacanze in automobile e che si imbattono in un incidente stradale. Per chi non l’avesse visto ve lo propongo qui sotto.

La sindrome della chiave del cesso

Ho trovato per caso un articolo-intervista con Gianmaria Testa, cantautore piemontese purtroppo prematuramente scomparso, che ho sempre apprezzato e che era amico di un mio collega ed amico ai tempi in cui lavoravo per il Teatro Stabile di Torino. Nell’intervista, sul sito greennews.info, Testa lo cita espressamente :

Le canzoni non fanno le rivoluzioni. Credo che chiunque abbia acquisito qualche diritto di audience debba avere con questo diritto un rapporto doppiamente etico, facendo bene quello che sa fare, senza cadere in quella che il mio amico Gianbeppe Colombano chiama “la sindrome della chiave del cesso” che affligge tutto il mondo occidentale. Mi spiego: immagina un condominio con un solo bagno e la chiave è affidata a una sola persona, che può approfittare di questa condizione privilegiata. Ormai applichiamo questa logica a tutto. La normalità sarebbe la condivisione, non lo sfruttamento.

A parte il fatto che leggere questa espressione mi ha fatto tornare indietro di almeno vent’ anni, direi che davvero è una sindrome molto, troppo diffusa e che non accenna assolutamente a diminuire, purtroppo, anzi! Ed inoltre è anche quasi sempre accompagnata da una totale mancanza di classe, di stile, cosa che qualcuno dirà non essere fondamentale, ma che per quanto mi riguarda è invece qualcosa di fondamentale. Del resto, come ho già scritto… Signori si nasce (vedi il post iniziale di questo blog).

In ogni caso mi fa anche piacere salutare Gianbeppe, qualora gli capitasse di leggere queste righe, e consigliare, a chi non lo conoscesse, l’ascolto di Gianmaria Testa (con un saluto anche a sua moglie Paola).

Perché non copiamo l’ Oyster Card?

Chiunque sia abituato ad andare a Londra e a girare la città con la metropolitana o i bus conosce l’ Oyster Card. E’ un sistema intelligente che non costringe a calcoli complicati per l’acquisto del biglietto.  Funziona così (da tanti anni): l’Oyster Card si può acquistare in tutte le stazioni della metro o ferroviarie di Londra. Si paga un deposito di 5 sterline, che comunque verrà reso se si decide di restituire la carta (ma se si pensa di tornare a Londra non conviene, perché l’Oyster Card non ha scadenza). Qualora si decidesse comunque di restituirla, verrà reso anche l’importo non utilizzato. Ovviamente, il saldo utile sulla card per viaggiare ad un certo punto finirà e sarà necessario ricaricarla., operazione semplicissima e possibile in tutte le stazioni della metro o del treno, attraverso una delle macchine automatiche. Si può ricaricare sia con contanti che con carte di credito. La card va poi solo passata sugli appositi lettori di colore giallo all’ingresso di ogni stazione e passata anche in uscita alla stazione di arrivo. Non bisogna dimenticarsi assolutamente il passaggio della card in uscita, anche se magari per il momento di punta i tornelli fossero aperti, poiché altrimenti si può essere multati. Questo in quanto l’importo varia a seconda del percorso utilizzato (urbano o extraurbano) e quindi viene calcolato in uscita (in autobus o in tram basta passare la card in salita poiché invece il prezzo delle corse non varia a seconda della destinazione). Un altro vantaggio è che la Oyster Card ha uno specifico Daily Price Cap, che non è altro che un limite di spesa giornaliera: superata una certa spesa non verrà addebitato più nulla e si può viaggiare per tutto il resto della giornata senza spese aggiuntive.  Comodo vero? A Milano dovendo prendere un biglietto extraurbano della metro bisogna fare dei calcoli come se si dovesse entrare in orbita. Alle macchinette automatiche appare questa legenda:

Chiaro no?  Ma perché non si pensa di copiare da chi ha avuto un’idea intelligente? Non ci sarebbe proprio nulla di male!

Ancora sui vaccini

Non volevo più tornare su questo argomento ma… Di Maio ha dichiarato, in merito ai vaccini, “No all’obbligo, si a raccomandarli”. Eh certo, noi italiani, si sa, siamo sensibili alle raccomandazioni. Ma credo che stia equivocando sul termine. Su un tema così delicato, così importante per la salute pubblica, i consigli non bastano. Si può consigliare di non fumare perché il fumo fa male (ma poi lo Stato sulle sigarette ci guadagna), si può consigliare di bere poco alcool, ma come si deve imporre di non guidare dopo aver bevuto perché si potrebbe far del male agli altri, nello stesso modo le vaccinazioni non possono essere lasciate alla discrezionalità del singolo. Ora anche la Francia ha undici vaccini obbligatori e in Australia, ad esempio, la legislazione è ancora più stringente che in Italia. E comunque, mi ripeto, per una volta che il nostro paese ha una legislazione corretta vediamo di non tornare indietro sulla base di non provati “complotti” delle multinazionali del farmaco. Se vi interessa sapere la posizione di tutti i partiti su questo tema, “Il Post” ha pubblicato un articolo che mi pare lo spieghi bene. Lo trovate a questo link.

Io ho un sogno

Sono felice di unirmi a voi in questa che passerà alla storia come la più grande dimostrazione per la libertà nella storia del nostro paese. Cento anni fa un grande americano, alla cui ombra ci leviamo oggi, firmò il Proclama sull’Emancipazione. Questo fondamentale decreto venne come un grande faro di speranza per milioni di schiavi negri che erano stati bruciati sul fuoco dell’avida ingiustizia. Venne come un’alba radiosa a porre termine alla lunga notte della cattività. Ma cento anni dopo, il negro ancora non è libero; cento anni dopo, la vita del negro è ancora purtroppo paralizzata dai ceppi della segregazione e dalle catene della discriminazione; cento anni dopo, il negro ancora vive su un’isola di povertà solitaria in un vasto oceano di prosperità materiale; cento anni dopo; il negro langue ancora ai margini della società americana e si trova esiliato nella sua stessa terra. Per questo siamo venuti qui, oggi, per rappresentare la nostra condizione vergognosa. In un certo senso siamo venuti alla capitale del paese per incassare un assegno. Quando gli architetti della repubblica scrissero le sublimi parole della Costituzione e la Dichiarazione d’Indipendenza, firmarono un “pagherò” del quale ogni americano sarebbe diventato erede. Questo “pagherò” permetteva che tutti gli uomini, si, i negri tanto quanto i bianchi, avrebbero goduto dei principi inalienabili della vita, della libertà e del perseguimento della felicità. E’ ovvio, oggi, che l’America è venuta meno a questo “pagherò” per ciò che riguarda i suoi cittadini di colore. Invece di onorare questo suo sacro obbligo, l’America ha consegnato ai negri un assegno fasullo; un assegno che si trova compilato con la frase: “fondi insufficienti”. Noi ci rifiutiamo di credere che i fondi siano insufficienti nei grandi caveau delle opportunità offerte da questo paese. E quindi siamo venuti per incassare questo assegno, un assegno che ci darà, a presentazione, le ricchezze della libertà e della garanzia di giustizia. Siamo anche venuti in questo santuario per ricordare all’America l’urgenza appassionata dell’adesso. Questo non è il momento in cui ci si possa permettere che le cose si raffreddino o che si trangugi il tranquillante del gradualismo. Questo è il momento di realizzare le promesse della democrazia; questo è il momento di levarsi dall’oscura e desolata valle della segregazione al sentiero radioso della giustizia.; questo è il momento di elevare la nostra nazione dalle sabbie mobili dell’ingiustizia razziale alla solida roccia della fratellanza; questo è il tempo di rendere vera la giustizia per tutti i figli di Dio. Sarebbe la fine per questa nazione se non valutasse appieno l’urgenza del momento. Questa estate soffocante della legittima impazienza dei negri non finirà fino a quando non sarà stato raggiunto un tonificante autunno di libertà ed uguaglianza. Il 1963 non è una fine, ma un inizio. E coloro che sperano che i negri abbiano bisogno di sfogare un poco le loro tensioni e poi se ne staranno appagati, avranno un rude risveglio, se il paese riprenderà a funzionare come se niente fosse successo. Non ci sarà in America né riposo né tranquillità fino a quando ai negri non saranno concessi i loro diritti di cittadini. I turbini della rivolta continueranno a scuotere le fondamenta della nostra nazione fino a quando non sarà sorto il giorno luminoso della giustizia. Ma c’è qualcosa che debbo dire alla mia gente che si trova qui sulla tiepida soglia che conduce al palazzo della giustizia. In questo nostro procedere verso la giusta meta non dobbiamo macchiarci di azioni ingiuste. Cerchiamo di non soddisfare la nostra sete di libertà bevendo alla coppa dell’odio e del risentimento. Dovremo per sempre condurre la nostra lotta al piano alto della dignità e della disciplina. Non dovremo permettere che la nostra protesta creativa degeneri in violenza fisica. Dovremo continuamente elevarci alle maestose vette di chi risponde alla forza fisica con la forza dell’anima. Questa meravigliosa nuova militanza che ha interessato la comunità negra non dovrà condurci a una mancanza di fiducia in tutta la comunità bianca, perché molti dei nostri fratelli bianchi, come prova la loro presenza qui oggi, sono giunti a capire che il loro destino è legato col nostro destino, e sono giunti a capire che la loro libertà è inestricabilmente legata alla nostra libertà. Questa offesa che ci accomuna, e che si è fatta tempesta per le mura fortificate dell’ingiustizia, dovrà essere combattuta da un esercito di due razze. Non possiamo camminare da soli. E mentre avanziamo, dovremo impegnarci a marciare per sempre in avanti. Non possiamo tornare indietro. Ci sono quelli che chiedono a coloro che chiedono i diritti civili: “Quando vi riterrete soddisfatti?” Non saremo mai soddisfatti finché il negro sarà vittima degli indicibili orrori a cui viene sottoposto dalla polizia. Non potremo mai essere soddisfatti finché i nostri corpi, stanchi per la fatica del viaggio, non potranno trovare alloggio nei motel sulle strade e negli alberghi delle città. Non potremo essere soddisfatti finché gli spostamenti sociali davvero permessi ai negri saranno da un ghetto piccolo a un ghetto più grande. Non potremo mai essere soddisfatti finché i nostri figli saranno privati della loro dignità da cartelli che dicono:”Riservato ai bianchi”. Non potremo mai essere soddisfatti finché i negri del Mississippi non potranno votare e i negri di New York crederanno di non avere nulla per cui votare. No, non siamo ancora soddisfatti, e non lo saremo finché la giustizia non scorrerà come l’acqua e il diritto come un fiume possente. Non ha dimenticato che alcuni di voi sono giunti qui dopo enormi prove e tribolazioni. Alcuni di voi sono venuti appena usciti dalle anguste celle di un carcere. Alcuni di voi sono venuti da zone in cui la domanda di libertà ci ha lasciato percossi dalle tempeste della persecuzione e intontiti dalle raffiche della brutalità della polizia. Siete voi i veterani della sofferenza creativa. Continuate ad operare con la certezza che la sofferenza immeritata è redentrice. Ritornate nel Mississippi; ritornate in Alabama; ritornate nel South Carolina; ritornate in Georgia; ritornate in Louisiana; ritornate ai vostri quartieri e ai ghetti delle città del Nord, sapendo che in qualche modo questa situazione può cambiare, e cambierà. Non lasciamoci sprofondare nella valle della disperazione. E perciò, amici miei, vi dico che, anche se dovrete affrontare le asperità di oggi e di domani, io ho sempre davanti a me un sogno. E’ un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali. Io ho davanti a me un sogno, che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza. Io ho davanti a me un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo dell’arroganza dell’ingiustizia, colmo dell’arroganza dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia. Io ho davanti a me un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho davanti a me un sogno, oggi! Io ho davanti a me un sogno, che un giorno ogni valle sarà esaltata, ogni collina e ogni montagna saranno umiliate, i luoghi scabri saranno fatti piani e i luoghi tortuosi raddrizzati e la gloria del Signore si mostrerà e tutti gli esseri viventi, insieme, la vedranno. E’ questa la nostra speranza. Questa è la fede con la quale io mi avvio verso il Sud. Con questa fede saremo in grado di strappare alla montagna della disperazione una pietra di speranza. Con questa fede saremo in grado di trasformare le stridenti discordie della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fratellanza. Con questa fede saremo in grado di lavorare insieme, di pregare insieme, di lottare insieme, di andare insieme in carcere, di difendere insieme la libertà, sapendo che un giorno saremo liberi. Quello sarà il giorno in cui tutti i figli di Dio sapranno cantare con significati nuovi: paese mio, di te, dolce terra di libertà, di te io canto; terra dove morirono i miei padri, terra orgoglio del pellegrino, da ogni pendice di montagna risuoni la libertà; e se l’America vuole essere una grande nazione possa questo accadere. Risuoni quindi la libertà dalle poderose montagne dello stato di New York. Risuoni la libertà negli alti Allegheny della Pennsylvania. Risuoni la libertà dalle Montagne Rocciose del Colorado, imbiancate di neve. Risuoni la libertà dai dolci pendii della California. Ma non soltanto. Risuoni la libertà dalla Stone Mountain della Georgia. Risuoni la libertà dalla Lookout Mountain del Tennessee. Risuoni la libertà da ogni monte e monticello del Mississippi. Da ogni pendice risuoni la libertà. E quando lasciamo risuonare la libertà, quando le permettiamo di risuonare da ogni villaggio e da ogni borgo, da ogni stato e da ogni città, acceleriamo anche quel giorno in cui tutti i figli di Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili, cattolici e protestanti, sapranno unire le mani e cantare con le parole del vecchio spiritual: “Liberi finalmente, liberi finalmente; grazie Dio Onnipotente, siamo liberi finalmente”.

E’ il discorso tenuto da Martin Luther King il 28 agosto 1963 davanti al Lincoln Memorial di Washington, al termine di una marcia di protesta per i diritti civili. King era nato il 15 gennaio 1929 e oggi quindi verrà ricordato in tutta l’America. Sarà commemorato anche da Donald Trump con un discorso registrato poche ore dopo aver definito Haiti uno “shit hole”.  Credo non occorrano commenti.

Lo voglio…

Se divento ricco, anche se non abito in una località così bella, lo voglio pure io. Sembra un rifugio di Diabolik. Mi piace davvero tanto. Guardate il filmato e ditemi se non è qualcosa di fantastico!