Direi che leggere l’editoriale di ieri di Massimo Giannini, direttore de La Stampa, farebbe bene anche a tutti coloro che negano la gravità della situazione che stiamo vivendo. Siamo tutti un po’ depressi oggi, ci sembra di essere ritornati indietro ai mesi bui della primavera.
Torno a casa. Esco dal tunnel, dopo tre settimane esatte di buio. Sono ancora positivo, ma dopo 21 giorni di Covid e almeno tre senza più sintomi posso proseguire la quarantena a domicilio. C’è un drammatico bisogno di posti letto, per ricoverare i tanti, troppi pazienti gravi che arrivano in continuazione. Quando sono entrato io, solo al mio piano, eravamo in 18. Ora ce ne sono 84. Oltre la metà ha meno di 54 anni, ed è intubata e pronata. Una “procedura” terrificante, che mi sono fatto raccontare. Ti sedano, ti infilano un tubo nei polmoni, e da quel momento su di te scende la notte di un tempo infinito e un luogo indefinito. Sei sdraiato sulla pancia, in una posizione guidata da un rianimatore esperto, per sedici ore consecutive. Dopo ti rigirano supino, per otto ore. Poi si ricomincia: sedici ore prono, otto ore supino. E così via. Tutte le volte che serve a far «distendere i polmoni», come dicono, e a sperare che intanto la malattia regredisca, e non distrugga definitivamente quel che rimane del tuo sistema respiratorio. Se questo accade, a un certo punto ti estubano, ti risvegliano e allora devi solo sperare di avere ancora un po’ di fiato in gola per gridare ce l’ho fatta. Se non accade, te ne vai senza saperlo, e senza che un familiare, un parente, un amico possano averti dato l’ultima carezza. Tutto questo mi è stato risparmiato. Lascio il mio letto a chi sta peggio di me, in attesa di un primo tampone finalmente negativo.
Non so quando arriverà, e non mi importa. Tra tanti “sommersi” che ho visto in questa avventura, io sono tra i “salvati”. E tanto basta. Anche se la mia povera madre rimane ancora lì, in quella stanza, a fronteggiare il Male da sola, io sono grato. Sono grato al Fato, al Caso, a Dio, alla Natura, ognuno scelga quel che crede. Sono grato a mia moglie e ai miei figli. Sono grato alla Vita, che vuole vivere anche quando la chimica impazzita del corpo o la psiche indebolita della mente la vorrebbero solo distruggere. Soprattutto, sono grato ai medici, agli infermieri, a tutti gli operatori sanitari che ho incontrato e conosciuto, tra terapia intensiva, sub-intensiva e reparto “pulito-sporco”, come si chiama nel nuovo gergo clinico imposto dal virus. Bisognerebbe vederle “al fronte”, soffocate da tute, guanti, maschere, visiere e occhiali, per capire chi sono e cosa pensano queste persone che fanno dell’Italia un Paese migliore. La competenza, il sacrificio, la dedizione, la cura, la solidarietà: stavolta non salvano solo l’esistenza degli altri. Mettono in gioco la loro, in ogni minuto, ogni ora, ogni giorno, ogni notte dei turni folli che il contagio gli impone. I grandi virologi, epidemiologi, pneumologi, abbiamo imparato a conoscerli in tv. Ma è di questo esercito silenzioso e meraviglioso di donne e di uomini che combattono per noi e per la nostra salute che non parliamo mai abbastanza. «Ne assumeremo 83 mila», avevano promesso nell’estate dissennata della movida. Purtroppo finora ne hanno presi meno di un terzo. «Perché non si trovano dietro l’angolo», ti spiegano: un rianimatore si forma in cinque anni, un infermiere esperto in tre. Risultato: lauree anticipate di due mesi per i dottorandi, e subito in campo anche loro. Che sono comunque pochi. E così, oggi, questi angeli in corsia sono meno della metà di quelli che servirebbero e lottano per noi a mani nude, per 1.400-1.600 euro al mese. Accolgono e assistono tutti i contagiati che affollano i pronto-soccorsi, gli ospedali, le ambulanze (ieri, quando sono stato dimesso, ferme nel piazzale del “triage” ce n’erano in attesa 56). Vecchi e giovani, bianchi e neri, poveri e benestanti: tutti hanno gli stessi diritti, in quell’irripetibile, ma ormai troppo fragile Welfare Universale che abbiamo ereditato dal glorioso ‘900. E loro, i già dimenticati “eroi in prima linea”, sono lì a garantirli. Senza una protesta, senza un lamento: «è il nostro lavoro», ti rispondono. D’accordo, è il vostro lavoro: ma grazie per quello che fate, e per quello che siete.
Poi, come al solito, dopo la Vita c’è la Politica. E qui, come al solito, i conti non tornano. Non tornano i conti del governo, che continua a rivendicare ciò che ha fatto di fronte alla prima ondata, ma ad autoassolversi su ciò che non ha fatto di fronte alla seconda, dalle terapie intensive mancate ai ventilatori polmonari scomparsi, dalla rete slabbrata della medicina di territorio alla rete sovraffollata del trasporto pubblico locale. Ho la massima stima per il ministro Speranza, ma di fronte al dramma che ci squassa lasci che a pubblicare libri inutili siano “scribacchini” da due soldi come noi giornalisti: da lui ci aspettiamo solo lavoro, lavoro e ancora lavoro. Ho il massimo rispetto per il premier Conte, ma di fronte ai numeri di questa emergenza lo stillicidio dei Dpcm a cascata e la strategia dei piccoli passi (e possibilmente uno indietro rispetto agli enti locali) non servono più a niente: da lui ci aspettiamo atti di governo, chiari e inequivoci, severi e all’altezza della sfida atroce che ci opprime, non prediche inutili e consigli da buon padre di famiglia. Ho la massima considerazione del ministro Gualtieri, ma di fronte al bilanciamento tra economia e salute non può esserci margine di equivoco sulla priorità: il lockdown è una tragedia necessaria, bar, ristoranti, negozi chiusi sono ferite profonde nella carne viva della nostra civiltà, ma si trovino e si diano fino all’ultimo centesimo le risorse che servono al sistema per reggere l’urto della chiusura.
Ho il massimo riguardo per il ministro Dadone, ma bisogna riconoscere che App Immuni è stata un fallimento. E tuttavia, come cittadini, dobbiamo guardare dentro noi stessi, e guardarci negli occhi gli uni con gli altri. L’ho già scritto, ne resto convinto: non mi sfugge la portata del conflitto culturale, morale e costituzionale che il Covid ci sbatte in faccia. Ma dobbiamo cedere quote di libertà, se vogliamo difendere la nostra civiltà. Noi che in condizioni normali abbiamo già serenamente affidato le nostre vite agli algoritmi del Capitalismo della Sorveglianza, e dopo aver scambiato un Whatsapp con un amico su un auto che ci piace o un viaggio che vorremmo fare riceviamo subito i relativi popup pubblicitari, di fronte alla gente che si ammala e che muore non possiamo agitare il feticcio vuoto della Privacy né gridare alla Dittatura, alla Deriva Fascista, al Grande Fratello. Non è il caso, non è il momento.
Non tornano i conti della maggioranza, che mentre la casa brucia blaterano di “verifica”, “stati generali” e altre fumisterie politiciste, e non tornano i conti dell’opposizione, che mentre le piazze ribollono non trova parole nuove per coniugare verità, “alterità” e responsabilità. Non tornano i conti delle Regioni, che oscillano tra le titubanti esitazioni della Lombardia e le tonitruanti deliberazioni della Campania. Quello che è successo a Napoli non è solo il fuoco fatuo di una nuova plebe derelitta, usata dalla frangia più violenta del tifo politico e strumentalizzata dalla Camorra. È una miccia accesa e pronta ad esplodere nel cuore della nostra democrazia, che ora è minata dal rischio di un altro contagio: quello della protesta sociale, che può dilagare ovunque. Molto più che un semplice tema da ordine pubblico: piuttosto un’altra sfida istituzionale e valoriale, che l’Agente Patogeno ci impone di affrontare con rigore, ma anche con misura. Ho la massima fiducia nel governatore De Luca, e sarei portato a condividere senza sé e senza ma le sue posture da Sceriffo di fronte a certe immagini agghiaccianti viste ieri sui social, tra pranzi allegri sulle spiagge di Posillipo e file chilometriche di sciatori alle funivie di Cervinia. Ma non si governa un territorio devastato e difficile con il Terrore della radiografia e l’Apocalisse della morte: l’opinione pubblica va sensibilizzata, mobilitata, ma rassicurata. Angela Merkel insegna, con il suo storico «Wir Schaffen Das» pronunciato cinque anni fa. Era un altro contesto storico, addirittura un’altra era geologica. Ma queste parole ci aspettiamo, da chi ci deve guidare oltre questo buio. Dipende da noi, dipende da voi. «Ma ce la faremo».