Monsters

Un articolo di Walter Veltroni dal Corriere su un brano di James Blunt

Si può cantare l’attesa di un vuoto? Di quel vuoto che riempie, soffocando, di vertigini e di buio? Si possono trovare le parole per dire a un padre che sta per lasciare la vita, tutto il proprio amore, tutto il proprio dolore? Lo si può fare senza retorica e senza falsi pudori? Da quando ho visto e ascoltato Monsters di James Blunt ho capito che è possibile. «Questo è uno dei video musicali più emozionanti che abbiamo visto da molto tempo». È l’opinione di un giornalista del sito pop Joe. L’autore, Rudi Kinsella – lo stesso cognome dell’autore del libro dal quale è stato tratto L’uomo dei sogni – sta parlando del video che potete conoscere qui sopra. Con gli occhi pieni di lacrime fissi nell’obiettivo il giovane cantante si rivolge a suo padre che ha il tempo contato, per una terribile malattia renale. Gli dice, soffrendo come un cane:

«Io non sono tuo figlio, tu non sei mio padre
Siamo solo due uomini adulti che si dicono addio
Non serve perdonare, non serve dimenticare
Conosco i tuoi errori e tu conosci i miei».

Da quando l’ho visto, questo video, non riesco a liberarmi da quello sguardo, da quel dolore. Ci sono una grande dignità e una grande verità, in quegli occhi umidi. Le stesse che si trovano nello sguardo del padre che, a un certo punto del video, compare a fianco del figlio. Come in un gioco di specchi della vita, quel magnifico anziano, come una pura proiezione di James nel tempo, stringe il suo braccio. Come fa un padre che vuole consolare il figlio, lo vuole rassicurare. I ruoli sono rispettati, sempre. «Io non sono tuo figlio, tu non sei mio padre, siamo due uomini adulti che si dicono addio». È una meravigliosa dichiarazione d’amore, quella specie d’amore bellissimo che lega, comunque lega, un figlio e chi gli ha fatto vivere la vita. Un rapporto fatto di tante cose. Di litigi, di rancori, di dolcezze, di bisogno di autonomia, di fili spezzati e di legami inossidabili, di apprendimento e ribellione, di rabbia sofferta e di incessante dolcezza.

«Il tempo è passato
Ho piegato i tuoi vestiti sulla sedia
Spero che tu dorma bene, non aver paura».

«Non avere paura» è la frase che dice un padre a un figlio, non viceversa. Ma il tempo, quello che «è passato», capovolge i ruoli, sposta la cura dell’altro dal vecchio al giovane.

«E mentre dormi, cercherò di renderti orgoglioso
Quindi papà, non puoi almeno chiudere gli occhi?
Non aver paura, è il mio turno
Per scacciare i mostri».

James, che è stato militare in Kossovo, che ha avuto il padre ufficiale dell’Army Air Corps inglese, sa bene cosa sia la morte. Sa che ora tocca a lui, «scacciare i mostri» che arrivano quando la stanza si fa buia e ci si sente soli. Questa meravigliosa e straziante canzone, questo video sconcertante nella sua semplicità non appartengono alla pornografia dei sentimenti di questo tempo. Mi sembra ci sia una grande dignità e il senso più profondo del distacco. E persino una razionalizzazione della morte, affrontata di fronte, a testa alta, non nascosta, non taciuta come una vergogna. La morte come parte della vita, come zona di scambio del testimone, tappa che, come nella foto tra Coppi e Bartali, rende impossibile capire chi passa la borraccia a chi. «Cercherò di renderti orgoglioso». Non è in fondo questa la sfida principale della vita, la prova del fuoco che dentro di sé ciascuno sente di dover affrontare? Per chi ti ha dato la vita, per chi, come faceva Ettore con Astiannatte, si è tolto l’elmo della battaglia, ti ha preso in braccio bambino, guardato fisso negli occhi, tirato verso il futuro?

 

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