Il manager italiano a Honk King

A Honk Kong vedono la luce alla fine del tunnel. Il Coronavirus è praticamente sconfitto in meno di due mesi. Ma là hanno rispettato tutte le norme. Loro sono capaci. Qui in Italia non siamo capaci.

Dal Corriere della Sera:

Due mesi per il ritorno alla normalità. Lo ha detto il sindaco Beppe Sala al Corriere dopo aver parlato con gli imprenditori che lavorano in Cina al di fuori della zona rossa. Uno di questi è Daniele Ferrero, ad di Venchi, l’azienda produttrice di cioccolato e gelati con negozi sparsi in tutto il mondo, una trentina solo tra Hong Kong, Cina e Macao con circa 250 dipendenti. In prima linea c’è Marco Galimberti, milanese, 34 anni, general manager Greater China e Asia Pacific. L’ultima volta che è tornato in Italia è stato per Natale, poi una lunga immersione durata 40 giorni.

Quaranta giorni, perché tutto inizia quando?
«Tra il 24 e il 25 gennaio. In maniera repentina. È il giorno del primo caso di coronavirus a Hong Kong dove lavoro e vivo. In Cina erano già più di cento, ma Hong Kong era ancora indenne. Tre giorni dopo il presidente Xi dichiara l’emergenza».

Voi cosa avete fatto?
«Ci siamo trovati in grande difficoltà. Era il capodanno cinese, un periodo di migrazioni. È stato bloccato tutto. Mancavano le mascherine, mancava l’amuchina. La situazione igienico sanitaria era tremenda. I centri commerciali all’interno dei quali si trovano i nostri negozi ci chiedevano delle misure sanitarie che non eravamo in grado di rispettare».

Poi cosa è successo?
«Dall’Italia ci hanno spedito 6.000 mascherine, altrettanto hanno fatto dalla Cina e la nostra vita è cambiata da un momento all’altro. Discorso diverso per i cinesi che sin dall’inizio, avendo vissuto la Sars, si sono autolimitati e hanno imposto regole molto rigide con la chiusura di tutte le scuole anche a Hong Kong. Guardando i numeri dico che le misure sono state determinanti per contenere il virus. A Hong Kong durante il capodanno c’erano tre milioni di cinesi, eppure i contagiati sono stati solo un centinaio e i decessi due. Su una popolazione di 7 milioni».

Cosa è successo al vostro business?
«Dove i centri commerciali hanno chiuso siamo stati costretti a chiudere i negozi. Altrimenti siamo rimasti sempre aperti anche se il problema del fatturato è stato enorme. Ci sono stati giorni e giorni dove facevamo quattro o cinque scontrini».

In un giorno normale?
«Tra i 150 e i 200».

Avete licenziato?
«Nessuno. Abbiamo chiesto di smaltire le ferie. Poi abbiamo ripreso».

Con quali regole?

«Molto rigide, mascherine per tutti, guanti per servire i gelati, sanificazioni degli spazi comuni, della cassa, di tutti i tavoli. Anche del pos. Operazione ripetuta ogni due ore con alcol al 75 per cento. Maniglie, porte, tutto quello che veniva a contatto con il pubblico».

Regole imposte dal governo o autonomamente?
«Non abbiamo avuto direttive specifiche, ma c’era la consapevolezza che era giusto fare così. Gli orientali prendono molto più seriamente la salvaguardia della propria salute rispetto a noi, si siedono a 2 metri di distanza, si lavano continuamente le mani».

Usa la mascherina?
«La metto in ufficio anche se non ero abituato. Ma vedevo che i colleghi erano a disagio e quindi l’ho indossata».

Quando ha capito che le cose stavano cambiando?
«Quando abbiamo visto che la curva del fatturato si stava lievemente riprendendo. Più lentamente rispetto alla curva dei contagi, ma in movimento. Adesso a 40 giorni dall’inizio, il business riparte, i negozi sono stati riaperti man mano hanno riaperto scuole e fabbriche».

Ha mai pensato che non ce l’avreste fatta?
«Mai, anche se in certi momenti è stato massacrante. A Hong Kong è stata ancora più dura perché prima ci sono stati mesi di proteste politiche. Non un giorno di respiro. Poi è arrivato il coronavirus… L’unico vero sconforto è che non possiamo viaggiare».

Da quando manca dall’Italia?
«Da Natale».

Adesso?
«Parlo ogni giorno con i miei colleghi delle altre città cinesi. Avvertiamo tutti la stessa cosa: vediamo la luce alla fine del tunnel. Dobbiamo solo tenere duro».

Progetti?
«Apriremo un negozio a Wuhan entro fine anno. Sono certo».

Se poi ancora qualcuno pensa sia una normale influenza e che non si possa chiedere ai ragazzi di 25 anni di stare in casa, leggete anche questo articolo decisamente scioccante: magari vi serve. Dal quotidiano OPEN.

«Si decide per età e per condizioni di salute come in tutte le situazioni di guerra. Non lo dico io, ma i manuali sui quali abbiamo studiato», a parlare al Corriere della Sera è Christian Salaroli, anestesista-rianimatore all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, che non nasconde preoccupazioni e difficoltà nel fronteggiare l’emergenza sanitaria del coronavirus.

Come viene scelto chi curare e chi no

All’interno del pronto soccorso è stato aperto uno «stanzone con venti posti letto che viene utilizzato solo per eventi di massa» ed è lì che vengono «ammessi solo donne e uomini con la polmonite da Covid-19 affetti da insufficienza respiratoria da mettere in ventilazione non invasiva». Questo è il primo passo da compiere, poi tocca al rianimatore.

«Oltre all’età e al quadro generale, il terzo elemento è la capacità del paziente di guarigione da un intervento di rianimazione» visto che la polmonite indotta dal Covid-19 «impatta tanto sull’ossigenazione del sangue». Ed è qui che viene presa la prima decisione più difficile: «Siamo obbligati a farlo. La ventilazione non invasiva è solo una fase di passaggio. Siccome purtroppo c’è sproporzione tra le risorse ospedaliere, i posti letto in terapia intensiva e gli ammalati critici, non tutti vengono intubati». A quel punto diventa «necessario ventilarli meccanicamente» e quelli su cui si sceglie di proseguire «vengono intubati e messi a pancia in giù perché questa manovra favorisce la ventilazione delle zone basse del polmone».

Come scegliere chi intubare e chi no

Ad esempio, con il paziente che ha tra gli 80 e i 95 anni e ha una grave insufficienza respiratoria «verosimilmente non procedi». «Se ha una insufficienza multi organica di più di tre organi vitali, significa che ha un tasso di mortalità del cento per cento. Ormai è andato». E così viene lasciato andare: «Non siamo in condizione di tentare quelli che si chiamano miracoli, è la realtà».

Poi, però, fa una precisazione importante: «Questa che non muoiono di coronavirus è una bugia che mi amareggia. Muoiono di Covid-19 perché nella sua forma critica la polmonite interstiziale incide su problemi respiratori pregressi e il malato non riesce più a sopportare questa situazione. Il decesso è causato dal virus, non da altro».

Medici e infermieri stremati

Una situazione che molti medici non riescono più a sopportare: «Alcuni ne escono stritolati. Capita al primario e al ragazzino appena arrivato che si trova di prima mattina a dover decidere sulla sorte di un essere umano. Su larga scala». «Io per ora dormo la notte – aggiunge – perché so che la scelta è basata sul presupposto che qualcuno, quasi sempre più giovane, ha più probabilità di sopravvivere dell’altro. Almeno è una consolazione».

Non solo le tante ore di lavoro, ma anche «il carico emozionale che è devastante». «Ho visto piangere infermieri con trent’anni di esperienza alle spalle, gente che ha crisi nervi e all’improvviso trema. Voi non sapete cosa sta succedendo negli ospedali», prosegue il medico.

Il collasso del sistema sanitario

Il timore è che il diritto alla cura possa essere «minacciato dal fatto che il sistema non sia in grado di farsi carico dell’ordinario e dello straordinario allo stesso tempo». Quindi, se la chiamata per un infarto prima veniva «processata in pochi minuti, ora può capire che si aspetti per un’ora o più». Dunque «si cerca di salvare la pelle solo a chi ce la può fare, è quello che sta succedendo» dice senza mezzi termini il medico. E infine l’invito a stare in casa: «Vedo troppa gente per strada, la miglior risposta a questo virus è non andare in giro. Voi non immaginate cosa succede qui dentro, state a casa».

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