La lettura di oggi: Scuola tradizionale e scuola on-line

Dal “Corriere dell Sera” un diverso punto di vista rispetto al più diffuso orientamento di questo periodo

Certo è facile per me, dopo 46 anni di insegnamento da cattedre liceali e universitarie, consentire a pieno con il comune, imperioso, diffuso sentire proclamato nelle piazze, dalle televisioni, sui giornali, nei social, sintetizzato nella richiesta del tornare a settembre alla scuola «in presenza», esorcizzando quel maleficio rappresentato dalle lezioni online. Eppure, di fronte ad un simile onnicomprensivo schieramento che va dalle famiglie agli intellettuali, dai sindacati alla classe politica in questo caso senza troppe distinzioni di appartenenza, non può non scattare l’inevitabile meccanismo di reazione in risposta ad un’unanimità che pare escludere dubbi, domande, perplessità, chiarimenti. Intanto, c’è da chiedersi perché, se era così impellente il bisogno di scuola nelle tradizionali modalità, non si è cercato di riaccogliere subito gli scolari senza attendere il trascorrere di tanti mesi. Così come, poi, hanno fatto, con diverse modalità, alcuni degli altri Paesi europei. Tanto più che le regole che saranno date per settembre non mi sembra si discostino da quelle valide per tutte le altre attività: igiene, distanziamento, mascherine. Ma evidentemente, come sempre, alla scuola in Italia è riservato un trattamento residuale, che riguarda edifici, stipendi, organizzazione, e quindi, anche ora, le esigenze della ripresa. E allora bene riaprire subito fabbriche, uffici, laboratori, palestre, piscine, ecc., ma chissà perché non le scuole, secondo le stesse norme che da ultimo saranno poi applicate identiche a settembre. Peraltro, è evidente che l’unanimità di cui sopra raccoglie le assolutamente legittime esigenze dei genitori di assicurarsi una sistemazione per i figli durante le loro ore lavorative; così come l’aspirazione degli insegnanti non strutturati ad una definitiva sistemazione nei ruoli dello Stato, secondo una tradizione di ope legis sempre sostenuta dalle richieste sindacali e dagli interessi elettorali dei politici. Né si può ignorare, a livello psicologico, il legittimo rimpianto degli intellettuali per quanto fatto nella loro vita di insegnanti (che poi è anche il mio caso), a stretto contatto umano con gli studenti.
Tutto giusto, dunque. Tutto ugualmente legittimo, ma di quale scuola stiamo parlando nel momento in cui ne reclamiamo la riapertura? Quella scuola di esperienze sociali gratificanti, di formazione individuale e collettiva, di crescita culturale, di acquisizioni di conoscenze assorbite dal rapporto di riconosciuta autorevolezza verso l’insegnante, così insistentemente evocata in ognuno di questi appelli alla ripresa? O non piuttosto un ritorno, anche se certo condizionato dalle esigenze anti contagio, alla scuola che abbiamo attraversato negli ultimi decenni e tanto criticata da quegli stessi che ora la invocano. Dov’era in questa scuola la crescita individuale e sociale minata dal lassismo e dal pressappochismo? Dov’era il rapporto fecondo di esperienze e conoscenze con una classe di insegnanti privata di ogni autorevolezza e, assai spesso, addirittura minacciata di non attenersi all’unico compito ormai ad essa riconosciuto di custodire il parcheggio degli allievi e garantir loro il «pezzo di carta»? Dov’era l’auspicata trasmissione di un sapere formativo delle coscienze, in grado di unire l’apprendimento delle nozioni indispensabili con la maturazione della personalità ( per non parlare delle delinquenziali forme di bullismo, o addirittura dei collegamenti tra scuola e degrado di quartieri non solo periferici)?
È evidente a tutt’oggi che il ritorno alla scuola «di presenza» ha una dimensione, diciamo così, quantitativa ( i numeri, le misure…) senza alcun tentativo di interventi qualitativi, dominati dal rifiuto, che mi pare di sapore «ideologico», dell’online. E questo è davvero singolare in un tempo dove si guarda ad un futuro di mutamenti in tutti i settori definiti da un utilizzo sempre più marcato degli strumenti innovativi della tecnologia. Fino ad individuare forme di intelligenza artificiale in grado di intuire e ritrasmettere i nostri pensieri; o di sostituire artificialmente parti del nostro corpo; e pure di animare in modo assolutamente realistico personaggi del passato che ci parlano oggi; come anche di proporci modalità inedite di produzione del cibo; fino ad immetterci in un’infinita rete di connessioni che riescano a controllare movimenti e finanche pensieri di tutti noi, ponendoci di fronte a problemi di scelta individuale e collettiva i cui rischi non vanno certo pregiudizialmente negati. Un mondo, dunque, dove – come sempre- ci sarà del positivo e del negativo, dei vantaggi e degli svantaggi, dei guadagni e delle perdite; ma verso il quale stiamo correndo, proclamando ad ogni piè sospinto la necessità di misurarci con un simile futuro, di attrezzare proprio le giovani generazioni ad affrontarlo con consapevolezza culturale ed adeguate strumentazioni tecniche ( quanto sembrano lontane le tradizionali diatribe tra preparazione “umanistica” e capacità “scientifiche”!).

Prima gli italiani?

Ma davvero nel 2020 esiste ancora gente così? Pare proprio di sì visto quello che si è scatenato dopo la partecipazione di un ristoratore alla trasmissione di Alessandro Borghese4 Ristoranti” di un paio di settimane fa, che era ambientato ad Arezzo e proponeva un confronto tra ristoranti di cucina medievale. Dopo un lungo sfogo su Facebook- come riporta La Stampa . , il ristoratore Mariano Scognamiglio si è rivolto alla polizia postale per denunciare i numerosi insulti omofobi che continuava a ricevere via telefono. Scognamiglio, in gara con il suo Il ristorante Di Mariano ad Arezzo, si era classificato al secondo nella gara, alle spalle del ristorante La Lancia d’Oro.

Ma è possibile che in Italia, nel 2020, debbano ancora accadere cose simili? Prima gli italiani? Ma direi proprio di no eh! Siamo veramente indietro di anni e anni.

Repetita iuvant: Il Belinismo

Un post di qualche mese fa, già in emergenza coronavirus comunque, cui basta cambiare i soggetti ma resta valido.
Il mio anziano, saggio e spiritosissimo zio di Genova con cui da bambino e da ragazzo ho trascorso tante giornate in campagna, quando doveva commentare le stranezze o i discorsi astrusi di qualcuno diceva che non bisognava parlare di cattiveria o di ignoranza, ma c’era un solo termine, genovese, che potesse definire quelle persone, ed era intraducibile in italiano: belinismo. E in effetti dice tutto e credo sia chiarissimo. Questa definizione mi è immediatamente tornata in mente dopo tanto tempo quando ho visto cosa è accaduto a Milano e in altre città sabato scorso. Che si può dire, oltre che sono incoscienti ad organizzare un assembramento in questo periodo? Si può dire che sono dei criminali? Si può dire che sono dei provocatori? Si può dire che sono dei rivoluzionari? Si può dire che sono politicamente impegnati? No direi che si può solo dire che sono affetti da belinismo.


(da corriere.it)